Down in a hole

La recensione di questo film mi mette in difficoltà per diversi motivi e, per questa volta, non credo neanche che la responsabilità sia mia. Il fatto è che mi trovo di fonte a una serie di contraddizioni che mi lasciano piuttosto spiazzato: è contraddittorio il regista, è contraddittorio il soggetto, è contradditorio il personaggio e alla fine risulta essere contraddittorio anche il mio parere sul film. Ma cerchiamo di fare un po’ di ordine e di spiegare dove siano tutte queste contraddizioni. Abbiamo detto: regista, soggetto, personaggio, film.

127 Hours

Innanzitutto un po’ di premesse. Danny Boyle. Ho cercato in tutti i modi di resistere alla tentazione di scrivere Trainspotting in questo articolo, ma alla fine devo cedere. Se, da adolescente, rimasi folgorato da Trainspotting, devo dire che successivamente non sono stato un grande fan del cinema saturato e sopra le righe di Boyle, ma gli ho sempre concesso la benevolenza che si concede a quello che si considera uno degli eroi della propria adolescenza. E infatti non ho condiviso affatto l’entusiasmo per lavori come Sunshine, 28 giorni dopo o The Millionaire ma ho sempre apprezzato la coerenza dell’autore che comunque ha una chiara e distinta poetica e un chiaro e distinto progetto culturale, per quanto distante anni luce dal cinema asciutto e realista che amo. Insomma, un autore a cui sono legato nonostante rappresenti un cinema verso cui sono piuttosto ostile; in questi casi la speranza è che l’autore si metta al lavoro su un soggetto che gli dia l’occasione per trovare l’equilibrio. E mi sa proprio che per Boyle quel soggetto è quello di 127 ore.

127 HoursSoggetto contraddittorio, dicevamo: si tratta infatti di una storia vera con un finale estremamente drammatico, ma tutti però sanno già come andrà a finire. Specie negli Stati Uniti la storia di Aron Ralston e della sua disavventura nel Blue John Canyon era già celebre sin da quando accadde nel 2002 e con l’uscita del film è ovviamente tornata in auge. –> SPOILER ALERT! Se non sapete come va a finire e non volete saperlo (anche se io in questo caso ritengo sia corretto conoscere il finale e che la fruizione del film ne possa solo guadagnare) non proseguite nella lettura! <– In sostanza tutti sanno che si tratta della storia di un escursionista spericolato che, rimasto con un braccio incastrato sotto una roccia, dopo una lunga agonia, per liberarsi è costretto ad amputarsi l’arto con un coltellino tascabile. Se normalmente conoscere il finale di una storia ne inficia la fruizione, in questo caso finisce per determinare un’esponenziale crescita della suspense, fino a farla diventare molto difficile da sostenere, vera e propria angoscia. E la cosa è tremendamente ingigantita perché, diveramente da quello che uno può aspettarsi, il protagonista è bloccato sotto quel sasso per praticamente tutto il film: non si tratta di 10 minuti di tensione, sono una cosa come 60 minuti in cui vediamo questo ragazzo fare diversi tentativi, disperarsi, sperare, tenere duro, disperarsi ancora, mentre vorremmo uralargli: “Fallo! Fallo subito! Non hai altre speranze, risparmiati e risparmiaci questa agonia.” Uno strazio.

Chiaramente tutto il film ruota attorno ad un personaggio. O meglio,  è come se la macchina da presa inizi ruotandogli attorno per poi andare mano a mano a stringere il cerchio, avvicinandosi sempre di più fino a penetrare nella sua disperazione e nelle sue allucinazioni, seguendo e assecondando il crescendo di tensione di cui parlavamo un attimo fa. E naturalmente tutta la forza del film sta nella complessità e nelle contraddizioni di questo personaggio, Aron Ralston, e nell’abilità di Danny Bolyle nel raccontarlo e di James Franco nell’interpretarlo dandogli profondità e credibilità in una situazione in cui l’azione e il movimento sono quasi completamente negati: interiormente però il personaggio percorre un sentiero lungo, tortuoso e ben più spericolato di quelli che è solito percorrere tra i canyon di Utah, Colorado e Arizona. E su questo terreno il cinema saturato e sopra le righe di Danny Boyle sembra trovare davvero un insperato equilibrio tra suggestione e realismo.

Tutto sommato quindi direi che 127 ore è un gran bel film, quasi un mirabile esercizio di stile sulla suspense (di stampo Hitchcockiano). Un esercizio perfettamente riuscito, anzi forse troppo riuscito, fino a far diventare il film squisitamente inguardabile tanta è la tensione e la reale sofferenza che rischia di infliggervi. Forse è il primo caso di film che sconsiglierei di vedere per quanto è bello.

127 Ore (127 Hours) – USA, GB, 2010127 Hours (Poster)
di Danny Boyle
Con James Franco, Amber Tamblyn, Kate Mara
20th Century Fox – 90 min.

nelle sale dal 25 febbraio 2011

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