1971: l’anno in cui c’era solo il rock

Sabato scorso, dopo aver letto il bell’articolo di Massimo Basile sui dieci migliori dischi del 1991, mi è sorta spontanea una domanda: ma se lo stesso autore si fosse trovato a scrivere un articolo a metà dicembre di quello stesso 1991, avrebbe forse stilato una lista dei migliori album del 1971? Probabilmente no [forse sì invece, ndmb], perché, a differenza di quel che accade oggi, vent’anni fa, quando ci si trovava tra le mani un album come Ten dei Peal Jam, Nevermind dei Nirvana o Innuendo dei Queen, non si avevano dubbi riguardo alla loro qualità. Certo, c’erano sempre i classici insuperabili degli anni ’70, ma quelle novità erano piene di sostanza, a differenza di quel che accade oggi.

Però c’erano sempre i classici insuperabili di vent’anni prima e se a Massimo Basile, troppo preso dalle esaltanti novità discografiche che giungevano dalla baia di San Francisco, non sarebbe neanche lontanamente passato per la testa di stilare quella lista sui dieci migliori album del 1971, be’, al posto suo sono sicuro che ci avrebbe pensato l’Andrea Rodi del 1991, tanto è vero che si accinge a farlo ora, convinto più che mai che il mondo debba ricordarsi, almeno una volta ogni decade, di quell’anno in cui vennero pubblicati alcuni dei dischi più belli di sempre.


The Who – Who’s Next

Subito dopo la pubblicazione del leggendario Tommy, Pete Townshend, chitarrista e geniale mente degli Who, decise di imbarcarsi in un altro progetto concettuale, ancor più ambizioso di quello precedente, intitolato Lifehouse, che, però, franò davanti alla sua stessa complessità. Dalle sue macerie il gruppo estrasse delle vere e proprie gemme – Baba O’Riley, Bargain, Behind Blue Eyes e Won’t Get Fooled Again – che diedero vita a quello che è senza alcun dubbio il loro miglior disco non concettuale.

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