Aboliamo le prigioni

Angela Davis è una figura storica del movimento afroamericano statunitense degli anni Settanta. Militante del Partito Comunista degli Stati Uniti, nel 1970 fu incarcerata con l’accusa di complicità nel rapimento (che portò poi all’uccisione) del giudice Harold Haley, a opera di Jonathan Jackson e altre Pantere Nere. L’evento scatenò una campagna globale di grande intensità, a cui presero parte eminenti figure come John Lennon e Yoko Ono (la canzone Angela fu scritta per lei), i Rolling Stones (che le dedicarono Sweet Black Angel), Jean-Paul Sartre e, in Italia, Antonio Virgilio Savona del Quartetto Cetra.

Fu proprio durante la prigionia che maturarono le sue prime riflessioni sul carcere e sul complesso carcerario-industriale.
Partendo dal presupposto che il carcere si configuri come una struttura fortemente sessista e razzista, il pensiero della Davis potrebbe essere riassunto con il concetto di “democrazia dell’abolizione”. Che non significa, letteralmente, distruggere di punto in bianco le strutture detentive esistenti quanto piuttosto fare in modo che non diventino il serbatoio in cui rinchiudere gli “scarti” che la società non riesce ad assorbire.

Nelle carceri statunitensi odierne, la stragrande maggioranza della popolazione dei detenuti è costituita da neri e ispanici; gente proveniente da quartieri difficili o veri e propri ghetti, a cui non si profila altra opzione se non l’arruolamento nelle forze armate, o, all’opposto, la delinquenza. Quindi, se è vero che sul piano formale la legge è uguale per tutti, è anche vero che, essendo astratta, non entra nel merito di quelle condizioni sociali che rendono inevitabile il sorgere della criminalità. Ed è qui che si delinea il razzismo: poiché la detenzione diventa una condanna a prescindere che grava su intere popolazioni, caratterizzate da povertà e indigenza acuite dallo smantellamento del welfare. Accanto a quelli dettati da motivi marcatamente sociali, a rimpinguare le carceri contribuiscono quei reati che criminalizzano sempre più aspetti della vita quotidiana, come per esempio, le leggi sull’uso delle droghe. Si arriva, così, a un altro punto critico: la privatizzazione delle strutture detentive, che la Davis indica con il nome di complesso carcerario-industriale (palese riferimento al complesso militare-industriale).

Cosa succede quando corporation sempre più potenti, con un indotto in costante aumento, hanno tutto l’interesse perché le persone commettano reati? O quando, con i campi di lavoro, possono pure disporre di manodopera a basso prezzo? Accade che, invece di riflettere su come fare a meno delle prigioni, ci si interroghi invece, e soltanto, su come renderle più coercitive. La critica della Davis si rivolge alla totale assenza di una riflessione generale sull’uso e abuso delle carceri, verso il cosiddetto “riformismo” che indirizza le sue energie sul solo miglioramento delle strutture e non, invece, sul progressivo smantellamento di queste ultime andando alla ricerca di quelle leggi e studiando quei processi sociali che le trasformano in un destino inevitabile.
Con una disamina delle riflessioni storiche sull’argomento, la Davis traccia il profilo delle carceri statunitensi odierne; soffermandosi sulla loro totale inadeguatezza per le donne (solo le perquisizioni integrali sono equiparabili a veri e propri stupri), sull’aumentare di malattie mentali tra i detenuti, sul persistente grado di razzismo. E la domanda che segue è: il carcere è obsoleto? Può il carcere sostituire in eterno politiche che mirino a estirpare la criminalità laddove è impossibile che non nasca? Siamo pronti a imboccare un percorso di inclusione, invece che perseguire come unico obiettivo l’esclusione, e per di più a fini di lucro, di intere fette di popolazione?

Titolo: Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale.
Autore: Angela Davies
Editore: Minimum Fax
Dati: 2009, pp 265, 14,40 €

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