Tracce grafiche di una reclusa che mai fu prigioniera

“Sono una piccola ape furibonda. Mi piace cambiare di colore, mi piace cambiare di misura”. Così è stato sempre, fino all’ultima, irreversibile metamorfosi.

La piccola ape furibonda se ne è andata. In silenzio la poetessa dei Navigli, la grande ispirata dall’anima multipla, la voce dei folli e dei mistici ha smesso di ronzare. Alda Merini è morta questo primo novembre autunnale, quasi fosse un simbolico omaggio ai Santi e alla tradizione cristiana che tanta parte ha avuto nella sua produzione poetica sia pure rivisitata in chiave pagana. Era nata, per citare un suo verso, “il ventuno a primavera”, la primavera del 1931. Si era certi che una che ne ha passate tante, troppe, estreme, una che ha oltrepassato i limiti, dovesse scampare alla morte e restare a suggerirci a suo modo il mistero fitto della vita e dell’amore, a testimoniare un’umanità indefinibile, contraddittoria, disancorata da ogni ordinaria convenzione e convinzione. Ebbe in sorte travagli molteplici e sofferenze acutissime Alda: la malattia mentale, l’internamento da matta tra matti, anni durissimi in manicomio dove subì elettroshock e persino uno stupro, la nascita di quattro figlie tra un ricovero e l’altro in vari ospedali psichiatrici prima e dopo la legge Basaglia, un marito, una vedovanza, un nuovo marito, una seconda vedovanza.

Da tutto ciò riaffiorò, candida e indomabile per partorire una produzione vastissima nella solitudine dell’antica e piccola casa milanese a Ripa di Porta Ticinese. Patì la povertà solo in parte mitigata dal fondo Bacchelli, alternata alla fama e ai passaggi televisivi anche recentissimi. Effetto della tv: sempre più negli ultimi anni Alda Merini è stata oggetto di curiosità, qualche volta morbose per via della sua vicenda manicomiale. Si lamentava che la sua casa fosse diventata un porto di mare: in pellegrinaggio da lei in cerca di altre verità (l’altra verità, diario di una diversa è proprio il titolo di una sua prosa), arrivavano anonimi, gente del quartiere, giovani artisti e registi attratti dal suo carisma, dalla sua voce, dalla sua particolare casa intessuta di materia, anima e presenze:

“Portiamo i morti con noi fino a quando moriamo a nostra volta”, diceva lei. A chi le chiedeva del manicomio, raccontava  con disimpegno come parlasse di un’altra, che per lei era stato un esilio volontario perché non amava lavorare e voleva passare la vita in ambiente protetto a riflettere per poi sputare poesie, che alla fine non si era trovata tanto male e il peggio era venuto dopo, ributtata nella società. “L’aver vissuto in un manicomio e l’aver interpretato questo vissuto non è cosa da tutti; l’esserne poi riusciti è stata impresa quanto mai difficile in quanto è pericoloso uscire dai meandri della propria inquietudine per addentrarsi nella socialità” (L’altra verità. Diario di una diversa, pag. 29). Alda ha scatenato e scatena perciò curiosità a non finire, e anche dal punto di vista grafologico.

Cosa ci racconta la sua scrittura? Come la sua parola poetica, anche la  grafia testimonia la complessità di un mondo interiore fatto di umore ondivago, ordine e caos, dono e ritrazione, ascesi e sensorialità. Mi solleticava troppo conoscere il gesto grafico tipico o i segni grafici di Alda Merini e la ricerca cominciò quando scoprii casualmente in libreria un volumetto Sogno e poesia edito nel 1997 e ristampato nel 2007 da  “La vita felice”, casa editrice milanese, in cui sono stampate 20 poesie autografe, ovvero scritte di suo pugno, scrittura della maturità quindi, l’unico campione disponibile. Non bussai mia alla sua porta ma giunsi ad esplorare il suo sito curato da Giuliano Grittini, fotografo, artista, amico ventennale di Alda. Grittini mi ha aiutato dandomi i suoi lavori, fotocomposizioni in cui non manca mai la grafia della poetessa, cataloghi e qualche fotocopia di scritti estemporanei:  già da  anni, Alda aveva attaccato al chiodo la penna per diventare voce narrante. Da lei stessa la poesia sgorgava naturale, dettava composizioni come fosse un oracolo.

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Le fotocomposizioni sono di Giuliano Grittini