Alfredo Jaar: Kunst = Politik // Arte = Politica

“Paese che vai, usanza che trovi”, si bisbigliavano tra loro i viaggiatori e gli emigrati del passato, come se volessero mitigare il loro stupore di fronte alle altrui culture con il ricorso al senso comune della patria distante. Nell’era della globalizzazione, il vecchio proverbio si sente ripetere sempre meno. Se oggi, quando a dettare le leggi delle usanze non è più il luogo, ma il tempo, volessimo aggiornare quel vecchio adagio, potremmo dire: “anni in cui vivi, moda che trovi. Ovunque tu vada”. E una delle mode di questi anni dieci del XXI secolo è senza ombra di dubbio quella dell’evento-che-dura-una-settimana. Anche se alcune week of hanno alle spalle una lunga tradizione – la prima fashion week di New York risale agli anni della seconda guerra mondiale, quando la città statunitense decise di approfittare dell’assedio di Parigi per sfidare l’egemonia francese nel mondo della moda– recentemente si è assistito a una vera e propria epidemia del festival settimanale, che pare non voler risparmiare nessun luogo né prodotto.

A Berlino, dove già da alcuni anni il punk e i club illegali sembrano aver ceduto il passo alle settimane della moda e della musica, è appena terminata la prima Berlin Art Week della storia. Per una settimana, nei musei e nelle istituzioni culturali della città si sono susseguiti mostre e incontri a cui si poteva accedere con l’acquisto di un solo, economico ticket. Contemporaneamente, in altri due luoghi simbolo del passato della capitale tedesca – a Tempelhof, l’aeroporto del ponte aereo che ha rifornito di alimenti la Berlino-ovest isolata nel blocco sovietico, e nella stazione di Gleisdreieck, situata a lato del muro e perciò pressoché abbandonata negli anni della guerra fredda– si sono tenute due fiere di arte contemporanea, già frequentate da anni da galleristi e collezionisti di tutto il mondo. Senza il supporto di questi due eventi legati al mercato dell’arte – affermano gli organizzatori – la Berlin Art Week non avrebbe avuto luogo.

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Per fare arte e cultura, anche in una città simbolo del comunismo e della controcultura com’è stata Berlino, c’è bisogno di denaro. Kultur = Kapital (cultura = capitale). L’identità, scritta con tubi al neon da Alfredo Jaar, e visibile fino a poco tempo fa a chiunque passasse di fronte alla vetrata della centralissima galleria berlinese Thomas Schulte, sembrava confermare la precedente constatazione di senso (quasi) comune. Nella mente del passante disposto a soffermarsi sull’equazione luminosa, però, l’uso del termine Kapital non poteva non evocare quasi all’istante spettri marxiani, mentre il ricordo del famoso Kunst = Kapital (arte = capitale) dell’artista tedesco Joseph Beuys riaffiorava forse più lento. Identificati i modelli, lo spettatore fortuito del testo di Jaar era costretto a rivedere la sua interpretazione fino a rovesciarla: la cultura oggigiorno ha sì bisogno di capitale, ma questo avviene in un sistema sociale che fa delle cultura una merce e che andrebbe superato (Marx) a favore di una società in cui ci si renda conto che il vero capitale è la cultura (Beuys).

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Una grande retrospettiva dell’opera di Alfredo Jaar, distribuita nelle sale di ben tre musei della capitale tedesca- la Berlinische Galerie, la Neue Gesellschaft für Bildende Kunst e la Alte Nationalgalerie -, costituiva l’offerta senza dubbio più invitante del cartellone della Berlin Art Week. Il titolo Eine Ästhetik des Widerstands (un’estetica della resistenza) non solo sintetizza efficacemente la concezione interventista dell’arte propria di Jaar, che tenta con l’uso di diversi mezzi espressivi di risvegliare la coscienza assopita dello spettatore e in questo modo agire politicamente sulla realtà, ma sottolinea anche il rapporto di lunga data che unisce l’artista cileno alla capitale tedesca. Eine Ästhetik des Widerstands è infatti il titolo di una delle prime opere realizzate da Jaar a Berlino, un’installazione apparsa nei primi anni Novanta nel Pergamonmuseum, noto in tutto il mondo per custodire il grandioso altare ellenistico di Pergamo. Proprio le scale dell’altare erano state scelte da Jaar per ospitare i nomi di alcune città tedesche in cui si erano verificati episodi di razzismo, mentre sui muri circostanti si potevano vedere foto delle gigantomachie ellenistiche scattate dall’artista cileno abbinate a dettagli di documenti fotografici che testimoniavano l’esistenza di nuovi gruppi neonazisti in Germania.

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L’installazione del Pergamonmuseum è stata ricostruita per la Berlin Art Week – e ampliata con i nomi delle città tedesche in cui nell’ultimo anno hanno avuto luogo omicidi a sfondo razziale – all’interno della Berlinische Galerie, dove sono state esposte anche cinque foto inedite* scattate da Jaar nei pressi della Brandenburger Tor poco dopo la caduta del muro (A new world, 1990). Oltre alle opere realizzate in e per la Germania, nella Berlinische Galerie erano anche visibili alcuni dei numerosi lavori di Jaar che hanno come soggetto il continente africano. Il progetto Ruanda (Rwanda Project, 1994-2000) e le installazioni dedicate al fotogiornalista Kevin Carter sono emblematici della continua interrogazione dell’artista cileno sul medium fotografico; il ruolo di testimone oculare del fotografo e la percezione della sua professione da parte del pubblico, le possibilità di rappresentazione non spettacolare della catastrofe della guerra, l’immagine come strumento di in-formazione e insieme accecamento dell’osservatore vengono qui indagati attraverso l’uso di contrasti accecanti tra luce e ombra (Lament of the images, 2002; The sound of silence, 2006) e fotografie in cui si allude alla violenza senza mai mostrarla (The eyes of Gutete Emerita, 1996)

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 Nella Neue Gesellschaft für Bildende Kunst sono state raccolte le opere, meno note al grande pubblico, che l’artistacileno ha prodotto dopo l’11 settembre 1973, il tragico giorno della salita al potere di Augusto Pinochet. Realizzati tanto in patria come in esilio, a New York, questi primi lavori di Jaar sono emblematici del suo uso dell’arte come strumento di intervento nello spazio pubblico: grandi cartelloni e interviste in cui viene chiesto al cittadino cileno di rispondere alla semplice domanda “sei felice?” (Studies on happiness: public interventions, 1981) – obbligandolo in questo modo a riflettere sulla propria condizione politica e sfuggendo contemporaneamente all’ottusa censura governativa -, una linea di bandierine del Cile che attraversa il paese e finisce nel mare (Chile 1981, before leaving, 1981) – tracciando sul suolo il percorso di tanti sostenitori di Allende, i cui corpi torturati venivano caricati su aerei e gettati nell’oceano -, installazioni luminose a Times Square in cui l’equazione Stati Uniti = America viene messa in questione (A logo for America, 1987) – e con essa l’ideologia statunitense che faceva dell’America latina il proprio giardino di casa… Negli ultimi anni, Jaar è intervenuto anche in Italia, per riportare all’attenzione del pubblico due grandi intellettuali oggi dimenticati come Gramsci (The Gramsci trilogy, 2004-2005) e Pasolini (The ashes of Pasolini, 2009), e per esortare anche il cittadino italiano a riflettere sul ruolo della cultura nella società contemporanea (Questions, questions, 2008).

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Infine, all’interno della Alte Nationalgalerie, alcune foto parziali e rovesciate di minatori d’oro brasiliani pendevano da un muro, mentre preziose cornici ricoperte con il medesimo prezioso metallo sembravano attenderle al suolo come tombe aperte (1+1+1, 1987) o concorrevano con un rettangolo luminoso nel tentativo fallimentare di mostrare al pubblico la totalità già incompleta dell’immagine partenza (Persona, 1987). In questo modo le possibilità rappresentative della fotografia e dell’immagine venivano ancora una volta interrogate, mentre la grande somiglianza tra le cornici scelte da Jaar e quelle delle opere che circondano l’installazione, appartenenti alla collezione permanente dell’Alte Nationalgalerie, sembra voler mettere in dubbio il valore etico dell’arte moderna, che ha fatto largo uso di materiali preziosi ottenuti dallo sfruttamento del continente americano.

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 “Tutte le mie opere – ha detto più d’una volta Alfredo Jaar – sono state fallimenti”: la rappresentazione non riesce, il cambiamento non ha luogo. Sarà vero? Solo lo spettatore può smentirlo.

* Inedite nel mondo dell’arte, le foto di Alfredo Jaar sono in realtà note agli appassionati di musica elettronica fin dal 2011, quando il figlio Nicolas le ha usate per illustrare il suo primo, sorprendente album Space is only noise – ma questa è un’altra storia..

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