All’apparir del vero. Incontro con Lucia Etxebarria

“Lucía, hay otra entrevista”.

Due minuti dopo essere stato così annunciato al telefono, busso alla porta della camera di Lucía Etxebarría all’Hotel Manin di Milano, dove la scrittrice spagnola si trova per promuovere in Italia il suo ultimo romanzo, Il vero è un momento del falso (Guanda, 2011). Non sono il primo, in camera c’è un giornalista che sta finendo le sue domande; e non sarò nemmeno l’ultimo, anche se Lucía inevitabilmente comincia ad accusare il jet lag dell’autopromozione. Mentre faccio anticamera in attesa del mio turno, noto su un tavolino d’ingresso una di quelle brochure sui servizi disponibili che si trovano in genere sui tavolini d’ingresso degli alberghi di lusso. Mi colpisce immediatamente lo scarso discernimento, tipico di questo genere di servizi, con cui la brochure dà il benvenuto a Lucía: “Welcome Mr Etxebarría”. “Mr”? Come se Lucía Etxebarría non fosse una scrittrice che, in un’intervista su Cafebabel di qualche tempo fa, si lamentava della letteratura “maschilista”, più maschilista di tutte le altre arti, in cui “gli uomini artisti sono degli artisti, le donne artiste sono delle donne”. Come se il suo nuovo romanzo non ruotasse principalmente intorno alle confessioni di un gruppo di donne, paranoiche, complesse, problematiche, affascinanti. Come se il succo del romanzo non fosse proprio quel problema, teorizzato da Guy Debord nel 1967 e oggi così bollente, dell’allontanamento della realtà che, rimossa sullo sfondo, si trova ad essere sempre più frequentemente sostituita da una rappresentazione, dallo spettacolo.

La questione è calda. Sarà per questo che, mentre io cerco di iniziare girandoci un po’ intorno, Lucía mi richiama subito all’ordine. Quello ha scritto, e di quello vuole parlare. E come resisterle?

D: Lei ha cominciato la sua carriera letteraria con Aguanta Esto…
R: No no, quel libro non ha assolutamente niente a che vedere con la mia carriera letteraria! All’epoca avevo 25 anni, facevo la giornalista per una rivista che si occupava di musica rock, c’erano quattro giornalisti in Spagna che si occupavano di questo particolare settore, io avevo bisogno di soldi e le altre tre hanno detto di no, e così l’ho fatto io, ecco. Quello fu un libro scritto su commissione, che non fa parte dei miei libri.

D: Questo vuol dire che quel libro non lo riconosce più?
R: No, semplicemente non è un libro che definirei “letterario”.

D: D’accordo, allora riformulo: Lei ha cominciato la Sua carriera di scrittrice con un libro su Courtney Love, e adesso ritorna al mondo della musica, con un romanzo il cui protagonista, Pumuky, è un cantante pluritossicomane…
R: Sì, anche se poi ciò che ho voluto scrivere non è un romanzo sul mondo della musica, né su un cantante rock, ma un romanzo sulla spettacolarizzazione della realtà. Per questo il protagonista poteva essere anche una star della televisione, o un attore, o qualsiasi altro personaggio dello spettacolo. Ho scelto il contesto del rock solo perché ci ho lavorato per lungo tempo, perciò è un mondo che conosco molto molto bene.

D: E non anche perché, conoscendolo così bene, forse Lei ritiene il mondo del rock particolarmente significativo per esprimere il determinato tipo di relazioni sociali – sclerotizzate, paranoiche – che si viene a creare nel romanzo?
R: Beh, come tutte le rock-star il protagonista è un narcisista che chiede, pretende attenzione: i personaggi del rock sono estremamente narcisisti. Come del resto estremamente narcisista è la società contemporanea in cui viviamo: una società di consumo, di individualismo, di soddisfazione immediata. Normalmente tutti i nostri eroi contemporanei, i cantanti rock, gli attori, i personaggi della televisione, sono personalità narcisiste: anzi, narcisisti-vampiro.

D: Nelle primissime battute del romanzo, uno dei personaggi parla della rarità della vera amicizia: quando il gruppo era famoso, amici anche da sotto i sassi, salvo poi svanire tutti. Discorso attualissimo, nella social era di Facebook.

R: Sì, in Spagna infatti abbiamo un modo di dire: “Vali meno di un amico di Facebook”! Anche se tra gli attori è esattamente la stessa cosa: se sei un attore famoso di un teleromanzo o di una serie televisiva che dura un anno, per quell’anno non ti capiterà mai di pagare la consumazione del bar. Come finisce quell’ingaggio, scompari, sparisci, così.

D: Come nei reality-show, no? C’è ancora il Grande Fratello in Spagna?
R: (smorfia) Sì, c’è, sul canale di Berlusconi, che dopo Telecinco ha appena comprato, l’anno scorso, La Cuatro.

D: Lei ha citato Berlusconi: e sa che in Italia il rapporto donna-corpo-spettacolo è un argomento caldo, ultimamente. Nel suo romanzo assume un notevole peso proprio il rapporto della donna con il suo corpo; penso ad esempio a Olga.
R: Sì, Olga, o Valeria, che è addirittura anoressica. Noi viviamo evidentemente in una società in cui il rapporto di una donna con il proprio corpo è del tutto innaturale: ci vengono imposte delle donne assolutamente fuori dalla natura e dalla realtà, un canone di donne magrissime ma con seni molto prosperosi, il che non esiste in natura, no? Ed è un canone, ancora un volta, consumista, un canone per donne ricche, nel senso che essendo non naturale dimostri di aver avuto i soldi necessari per rifarti, per toglierti i fianchi, aggiungerti il seno… Io non credo di conoscere nessuna donna che non abbia tentato una dieta: molte donne vivono costantemente all’erta, perché è la società che ti impone quel canone e tu ti convinci che è giusto, che bisogna seguirlo. E non è un caso che questa pulsione esista anche per gli uomini, etero o omosessuali, perché entrano in un collettivo sociale che pretende un determinato canone di bellezza come condizione necessaria al conseguimento del successo e del riconoscimento.

Avrei altre domande, ma il tempo è scaduto. Bussano come pochi minuti prima avevo bussato io. Hay otra entrevista, Lucía. Ho giusto il tempo di farmi autografare il romanzo. Lucía Etxebarría mi ringrazia del mio tempo; ma in realtà sono io che devo ringraziare lei, che – come tutti i veri scrittori – cerca di aprire gli occhi dall’esterno a chi si ostina a volerli tenere chiusi, preferendo accontentarsi di un momento di verità nascosto, quasi invisibile, tra le pieghe di un enorme quadro falso.