Anoressia, i luoghi comuni nella mente del terapeuta

Nessuno sfugge alla rete insidiosa del luogo comune: gli psicoterapeuti possono rimanere invischiati in trappole mentali dovute ad automatismi professionali, eccesso d’adesione a un modello fatto proprio, demotivazione. Nel trattamento dell’anoressia, ancora troppi sono i vizi capitali del pensiero che i professionisti della cura psichica devono imparare a riconoscere all’istante per non compromettere il loro stesso operato. Formazione e aggiornamento non vanno in ferie, mai. L’AbcPsy, giovane ma iperattiva associazione presieduta dallo psicoterapeuta Francesco Basilico, nata nel 2009 con l’intento di diffondere il benessere e il sapere psicologico sul territorio molisano e abruzzese e con tanti progetti e iniziative all’attivo sul territorio (anche nei carceri di Vasto e Larino), ha organizzato a Termoli dal 24 al 26 agosto una summer school per medici, psicologi e psicoterapeuti. Anoressia, tre approcci per un paziente, il titolo dell’iniziativa: ogni giorno un relatore ha trattato l’argomento per consentire ai partecipanti di integrare tre distinte modalità di approccio al disturbo. L’approccio cognitivo-comportamentale è stato illustrato da Sandra Sassaroli; quello psicodinamico da Mirella Baldassarre; il sistemico-relazionale da Gianfrancesco de Tiberiis. Forniamo qui di seguito un accenno di uno dei tre interventi.

“Le famiglie producono patologie”: questa l’avvertenza preliminare di Mirella Baldassarre.  Psicoterapeuta psicoanalitico, didatta e docente di psicoterapia psicoanalitica, direttore della scuola di specializzazione in psicoterapia I.R.E.P. (Istituto di Ricerche Europee in Psicoterapia Psicoanalitica) e del C.I.D.P. (Centro Italiano Disturbi di Personalità), autrice di numerosi articoli e libri (editi da Borla e Alpes), Mirella Baldassarre a partire dal suo modello teorico di riferimento, ha stanato l’errore più grave nel trattamento dell’anoressia: l’essere stata intesa come un disturbo che nasce da una privazione di fame. “Invece è il contrario. Le anoressiche, la cui ossessione è il cibo, ‘muoiono di fame’ per dimostrare il massimo del controllo, il trionfo narcisistico”. Un altro peccato d’origine è stato di averlo considerato un disturbo che coinvolge la vita adulta: “Si parla di anoressia solo degli adulti. In realtà non è così: colpisce la prima infanzia e l’adolescenza. Il cibo è veicolo di emozioni dalla nascita, di contatto fisico”. L’equilibrio della personalità è la risultante di fattori biologici, psichici e ambientali in dinamica interazione; dunque non è nella vita intrapsichica di chi manifesta il disturbo che bisogna cercare. Occorre indagare la relazione: in tutte le patologie alimentari è assente il piacere della relazione così come il piacere di mangiare. Occorre  osservare la realtà familiare, la storia familiare, i dettagli, a cominciare dalla modalità di somministrare i pasti: “Le famiglie producono patologie”: il pensiero è urticante quanto si vuole, soprattutto per un  genitore, ma è il dato obbligatorio da cui partire. “Sono famiglie che presentano sempre le stesse caratteristiche: bambini trattati come adulti, adulti come bambini. Alta vulnerabilità della coppia e dei genitori. Spesso avarizia di sentimenti. In una parola, sono famiglie narcisistiche. I figli fanno da termometro delle nostre incapacità”. Di queste incapacità i bambini possono risentirne fin da neonati quando la tensione biologica è forte perché vivono nel e del corpo e attraverso il cibo si struttura la relazione emotiva.

“All’inizio – osserva Baldassarre – la relazione deve essere simbiotica perché il bambino appena nato si trova catapultato in una caterva di sensazioni e impulsi e deve sviluppare la vita psichica nell’attesa che la buona madre arrivi. I genitori devono saper essere simbiotici all’inizio per poi tirarsi indietro. I buoni genitori si occupano della vita materiale come di quella psichica del bambino. Il disturbo alimentare è un disturbo primario e non un sintomo. Le madri narcisistiche reprimono molto presto i bisogni del bambino”. Ad esempio dargli da mangiare troppo spesso per placare l’ansia propria (di madre) non è sostenerlo ma togliergli gli appetiti. “Il danno vero nelle anoressiche è cominciato intorno ai 2-3 anni. L’anoressica non ha potuto vivere la relazione con la madre. La prima vera patologia sono i legami primari. Le identificazioni primarie del bambino intorno ai 2-3 anni sono già compromesse. Le basi per lo psichismo sono già state messe”.  E così accade che ‘l’anoressia semplice’ può colpire il bambino fin dal primo anno di età, addirittura a partire dai sei mesi. “È la prima vera crisi relazionale che il bambino vive, è una condotta di opposizione, il terrore dei pediatri perché il bambino comincia a disidratarsi”. Sottolinea  Baldassarre: “Al bambino deve essere data la libertà. Se c’è una relazione narcisistica, se c’è il ‘tu devi essere perfetto’, il controllo onnipotente di una madre fallica, al bambino non viene permesso di avere i suoi bisogni. Ci sono momenti traumatici nella vita delle persone anche quando siamo molto piccoli”. Può manifestarsi l’anoressia di svezzamento: la mente dei genitori è in grado di riconoscere il bambino come essere autonomo e creativo o prevalgono angosce di perdita? Ci possono essere forme di anoressia episodica e forme di anoressia strutturata; c’è anche l’anoressia di inerzia “di bambini che non è che non mangiano, ma sono passivi, come indifferenti verso il cibo”. Può accadere che l’anoressia è ‘fantasma’ che vive solo nella mente di genitori ansiosi. Nei bambini, comunque, non compare mai da sola ma associata con i disturbi del sonno. L’anoressia mentale non risparmia la prima infanzia. All’improvviso il bambino smette di mangiare, mette in atto un comportamento di rifiuto: “intorno ai 2-3 anni c’è un momento fortissimo di analità, di controllo assoluto e attacco all’ambiente. In questa età si struttura l’anoressia che sarà dell’adulto”. Ai bisogni negati  fa da contr’altare l’affermazione del potere del bambino in forma di rifiuto del cibo.

L’altro momento in cui può svilupparsi l’anoressia è l’adolescenza: momento di crisi ‘fisiologica’, ultima tappa dell’età evolutiva in cui c’è l’assestamento definitivo della personalità. L’immagine di un corpo sessuato deve entrare nel corpo dell’adolescente. C’è un momento di regressione. Può accadere che qualcosa dell’aggressività non esplode ma implode. A volte l’adolescente non è capace di tirar fuori la propria aggressività”. L’anoressia diventa allora perverso uso del corpo dovuto al non aver potuto vivere le proprie emozioni. Nell’anoressica si struttura un ‘narcisismo patologico maligno’, per usare la celebre espressione di Otto Kernberg: “Sono pazienti che non si alleano con nessuno. Il loro alleato è il corpo da distruggere”. Sono state bambine a cui è stata negata la libertà di avere bisogni. Hanno vissuto solo lo stato di eccitazione, mai di soddisfazione dei bisogni in famiglie che non hanno favorito il processo di differenziazione e individuazione. Spesso la figura del padre è sbiadita o assente. Il pensiero del cibo è dominante ossessivamente su tutto. A volte  l’anoressia è incastrata in una costellazione di sintomi che rientra in un disturbo di personalità o psicotico. Sono patologie al limite che si intrecciano non solo con la psicologia ma anche con la storia sociale, familiare, epocale, quindi con la cultura d’appartenenza. “C’è un rapporto serio tra psicopatologia e società – evidenzia Baldassarre – l’equilibrio mentale è dato dalla triade biopsicosociale”. Ecco perché al terapeuta è richiesto il delicatissimo compito di  entrare e uscire dal proprio ruolo utilizzando le categorie psicologiche di riferimento per accantonarle o superarle quando occorre “perché le persone non sono sintomi”. Profondi disagi interiori che diventano disturbi e patologie, richiedono spesso la capacità da parte del terapeuta di saper interrogare altri ambiti sapendo anche mettere da parte le cognizioni acquisite.  La sociologia, l’antropologia,  la filosofia e la sua indagine ontologica del corpo vissuto e degli stati dell’essere diventano indispensabili attrezzi nella cassetta da lavoro del terapeuta. Specie la filosofia può essere una via d’esplorazione oltre i paradigmi dati. Ippocrate lo aveva ben chiaro appena l’altroieri: “Il medico che è anche filosofo è pari a un dio”.