Batman non abita più qui: Il cavaliere oscuro – Il ritorno

«Dammi ti prego una maschera, e un’altra maschera ancora» – F. Nietzsche

Chi di voi non indossa una maschera può anche smettere di leggere qui. Non stiamo parlando di orpelli materici come occhiali, piercing e altri accessori, di acconciature o tagli di barba più o meno studiati, niente affatto, ci riferiamo alla maschera comportamentale che l’uomo moderno indossa a seconda delle occasioni, per un colloquio di lavoro, a un pranzo familiare, nell’intimità o davanti a una pinta di birra con gli amici. La vita è teatro e bisogna recitare più parti per non ritrovarsi esclusi. Il rovescio della medaglia (per riprendere la metafora di Harvey Dent/Due facce, ben nota ai fan di Batman) è correre il rischio di smarrire il proprio vero volto. Ma esiste poi sul serio questo “vero” volto?

«Se potessimo vederci con gli occhi degli altri, scompariremmo all’istante», scriveva Cioran, ed è inevitabile pensare a quanto la nostra identità sia precaria, fragile, bisognosa di un continuo processo di auto-costruzione, dal momento che se dovessimo essere davvero “noi stessi”, saremmo subito sopraffatti dalla sessualità, dall’aggressività, dall’indolenza e dalla disperazione, non appena fossimo sottoposti agli stimoli dell’ambiente che ci contiene. Si può affermare che nasciamo come una moltitudine di personalità di cui una diventa egemone, quella che poi saremo soliti chiamare il nostro Io. La nascita dell’Io non sopprime le altre personalità latenti nel nostro sottosuolo psichico. Forse non le conosceremo mai, forse riaffioreranno per dominarci, o far emergere quell’altra persona che ignoravamo di poter essere.

Batman bambino – fin dall’esordio del 1939, nella genesi elaborata dai suoi creatori, Bob Kane e Bill Finger – assiste all’uccisione dei genitori per mano di un ladruncolo, Joe Chill, all’uscita di un teatro, e decide di dedicare la vita alla lotta contro il male, per ripulire Gotham City dai criminali. Gli occorre però un’altra identità, da coltivare dietro la facciata diurna e rassicurante del miliardario filantropo Bruce Wayne. Habemus Batman. Il regista inglese Christopher Nolan descriverà l’infanzia, il trauma, la caduta e la rinascita del nostro eroe nella prima ora di Batman Begins (2005), primo pannello del trittico concluso da Il cavaliere oscuro – Il ritorno, campione al botteghino in questi giorni di fine estate. Più che un trittico, forse sarebbe più giusto parlare di un’ampia cornice (il terzo episodio si ricollega strettamente al primo) che racchiude una gemma inattesa, Il cavaliere oscuro del 2008, dove Nolan si è concesso più libertà espressiva e dove tutti i personaggi sono messi in ombra dal Joker di Heath Ledger, oscar postumo 2009. Nolan accettò di cimentarsi nel reboot di Batman (inteso come nuovo prodotto filmico che ridesse vigore a una saga appannata), proprio a patto di poter rifondare la serie, marcando uno stacco netto col Batman kitsch e fracassone di Joel Schumacher e con quello gotico-citazionista di Tim Burton. [È curioso notare che, in una saga dove spesso il protagonista perde la scena a vantaggio dei suoi nemici, sia nella serie di Burton che in quella di Nolan, i due personaggi che colpiscono di più l’immaginario siano gli stessi, Joker e Catwoman, interpretati da Jack Nicholson e Michelle Pfeiffer nel 1989-92 e nel 2005-12 da Heath Ledger e Anne Hathaway].

Il cavaliere oscuro è un supereroe della DC Comics che non ha superpoteri, è un maestro nelle arti marziali e può contare su un corredo illimitato di gadget tecnologici. Soprattutto, è lacerato tra il buio e il giorno, violenza e pace, individuo e società. Meglio precisare: è un fumetto americano, non è Dostoevskij; Batman non ha la piattezza di Superman, non è infantile come l’Uomo Ragno, ma conosce lo stesso ben poche sfumature: da una parte il male, dall’altra il bene. Talvolta il sentiero verso il bene si fa irto e periglioso. Dove le leggi ordinarie non bastano supplisce il (super)eroe, come i tiranni nell’antica Grecia o le leggi straordinarie adottate dall’amministrazione Bush dopo l’11 settembre. Per questo Batman non può non essere reazionario: come tanti paladini bigger than life del cinema americano, in sostanza, il suo fine è quello di ristabilire lo status quo. Per questo, nel terzo episodio della trilogia di Nolan, è più facile tifare per i terroristi guidati dall’antieroe Bane (gli amanti del complotto noteranno che si pronuncia come la Bain, compagna di Mitt Romney oggi al centro di qualche polemica), che prendono in scacco Manhattan colpendo per primo il suo cuore economico, Wall Street, e si lanciano in proclami demagogici sulla redistribuzione della ricchezza sociale (Beppe Grillo, vedendo il film, potrebbe essere tentato di farsi scritturare per il prossimo Batman; del resto, si tratta di un Joker capovolto, di un capopopolo che non riesce a cancellare dalla sua smorfia berciante le stimmate del vecchio capocomico).

La maschera, intesa come simbolo, può essere usata sia per rafforzare che per nascondere l’identità. Nel teatro greco, ad esempio, i suoi tratti caratterizzavano il personaggio sul piano psicologico/comportamentale, aiutando così lo spettatore a seguire la messa in scena. Nel contesto europeo moderno, invece, è impiegata sovente per assumere un’altra identità, eludendo le costrizioni della morale e della religione (pensiamo alla maschera carnevalesca del medioevo). Il travestimento di Batman ricopre entrambi gli ambiti semantici: da un lato è necessaria per tenere nell’ombra il miliardario Bruce Wayne (il grande potere economico della Wayne Enterprises da solo non basta, infatti, a contrastare l’attacco incrociato di politici e istituzioni corrotte, della criminalità organizzata, della Setta delle ombre di Ra’s al Ghul, sconfitto in Batman Begins e riproposto, “per interposta persona”, in questo terzo film della trilogia), dall’altro serve perché Bruce Wayne possa esprimere la parte oscura del suo io, possa soddisfare la sete di vendetta per il lutto immotivato che la sorte gli ha inferto, in modo da non rendere vana la morte dei genitori attraverso il riscatto di Gotham City, cupa metropoli sempre ad un passo dal baratro. [Ne Il cavaliere oscuro – Il ritorno, Gotham City va a coincidere con l’isola di Manhattan, presa in ostaggio dai mercenari di Bane. Si verifica dunque, soprattutto rispetto a Batman Begins, che rimandava ad un’architettura urbana sul modello di Blade Runner, uno slittamento verso un’ambientazione più marcatamente riconoscibile, elemento che supporta i rimandi del plot alla crisi finanziaria seguita al 2008.] Il costume di Batman è una seconda pelle del personaggio, forse quella più vera; è il correlativo oggettivo del suo demone, la licenza del fantastico che nel mondo dei comics permette di superare i limiti dal realismo: «Perché a volte la verità non basta, perché a volte la gente merita di più e ha bisogno di essere ricompensata», sentiamo appunto dichiarare, quasi un manifesto di poetica, verso la fine de Il cavaliere oscuro. Il dominio del sogno non è forse circoscritto dai confini delle tenebre?

The Dark Knight Rises è stato tradotto in italiano Il cavaliere oscuro – Il ritorno, si spera non per profetizzare altre discese in campo di Berlusconi, ma per strizzare l’occhio al titolo quasi omonimo della miniserie di Frank Miller del 1986, che oltre ad aver rivitalizzato la saga di Batman dopo anni di declino, costituisce un punto di svolta nella storia tout court dei fumetti, che da qui in avanti si apriranno verso una dimensione più adulta e consapevole. La miniserie di Frank Miller (Sin City, Daredevil) è citata più volte nel film di Nolan, che prende in prestito soprattutto l’elemento temporale nello sviluppo del personaggio (i supereroi storici “non invecchiano”), e le condizioni di Batman/Bruce Wayne all’inizio della narrazione – claudicante, depresso e auto-recluso nel suo castello – otto anni dopo la morte di Harvey Dent/Due Facce, del quale si era addossato le colpe per il bene di Gotham. Ma è risaputo che i giustizieri della notte, anche quelli alati, non sanno resistere al richiamo dell’offensiva criminale: del resto, senza, sarebbero tutti disoccupati. Come già anticipato, stavolta il cattivo è Bane, un gigante che pare uscito da un torneo wrestling e che contribuisce a spostare la vicenda sul piano fisico – in senso letterale. L’ambiguità psicologica dello scontro col Joker di Heath Ledger è solo un ricordo, buona parte del film è occupata da risse ridotte o di massa (talora con esisti involontariamente comici, ad esempio quando la polizia si azzuffa con l’esercito dei criminali come nemmeno in Gangs of New York). Prima di arrivare allo scontro finale, che assomma ansie post apocalittiche alla Roland Emmerich con colpi di scena in stile James Bond, bisognerà passare però attraverso imprevisti, cadute, viaggi in Oriente e, appunto, nuove risalite. Nel frattempo saranno passate 2 ore e 45 minuti e i fan della serie lasceranno la sala più che sazi. La sceneggiatura ha fatto i salti mortali per inserire tutti gli ingredienti di un capitolo conclusivo (e lasciare spiragli ad eventuali seguiti), ma è serio il rischio di un’indigestione di temi (non manca nemmeno il rimando ecologista: il reattore nucleare della Wayne Enterprises, è una fonte di energia pulita o il pericolo n° 1 per Gotham City?) e poi, di conseguenza, molti nodi della trama si intrecciano senza riuscire del tutto a dipanarsi. Insomma, è inferiore ai primi due, migliore di un film medio di supereroi… perché dovreste andare a vederlo?

Tanto per cominciare, è meglio che lo vediate al cinema: Nolan è il primo regista a fare un uso così ampio – 72 minuti sul totale del film – del sistema di proiezione IMAX, che ampliando la zona di immagine sulla pellicola in 70 mm (scompaiono anche le tracce audio), permette di ottenere una nitidezza e una profondità di campo fino ad oggi sconosciute. La definizione di kolossal d’autore, tuttavia, si attagliava di più ai primi due capitoli della trilogia: ne Il cavaliere oscuro – Il ritorno, le marche stilistiche di Nolan, come la destrutturazione della storia su diversi piani temporali (Memento, Inception) o la rifrazione della realtà resa da più punti di vista con il montaggio alternato (ad esempio ne Il cavaliere oscuro, quando Batman interroga Joker mentre Rachel e Harvey Dent sono tenuti in ostaggio in due magazzini diversi), vengono stemperate nello sviluppo di una trama lineare, che riesce a coinvolgere il pubblico, in prevalenza, accumulando le spettacolari sequenze che ti aspetteresti da un action movie ad altissimo budget. Il tocco di Nolan ritorna nell’evoluzione della figura di Bruce Wayne/Batman, che dopo la morte di Rachel Dawes, vittima di Joker, subirà la perdita dell’amore della sua vita e se ne assumerà la responsabilità, finendo così per ricalcare le orme di Leonard Shelby, protagonista di Memento, e di Dom Cobb nel più recente Inception. Come negli altri lavori del regista inglese poi, è inappuntabile la direzione degli attori: su tutti, in questo episodio, svetta la grazia atletica di Catwoman/Selina Kyle, interpretata da una Anne Hathaway incapace di non essere elegante anche indossando la divisa arancione del carcere. Batman potrebbe decidere di appendere il mantello al chiodo per stare con lei. Io, be’, ho gettato la maschera, ormai l’avrete capito chi sono andato a vedere al cinema.


2 thoughts on “Batman non abita più qui: Il cavaliere oscuro – Il ritorno

  • Settembre 19, 2012 alle 4:57 pm
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    Complimenti, bellissima recensione.

  • Settembre 19, 2012 alle 5:20 pm
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    Grazie Alessia

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