The Last Revelation – la musica di Bill Fay

Inverno 2011. Mi arriva una mail nella casella di posta elettronica. È la newsletter degli Okkervil River che mi annuncia una sorpresa, un ep di cover da scaricare gratuitamente. Non esito un attimo e in due click il mini album sta girando sul player. Le canzoni sono molto belle quindi con piglio certosino inizio a cercare in rete gli originali, e poi dopo gli originali gli album da cui sono tratti, e magari anche la discografia. Una volta ci mettevi un sacco di tempo e spendevi un mucchio di energie, oggi invece, a dirla lunga, basta una mezz’ora e l’opera è completata. Passo all’ascolto dei dischi dunque. Il primo della lista, chissà perché, è The time of the last persecution di Bill Fay, 1971, Inghilterra, da cui è tratta la superba Plan D. Schiaccio play e la mia ricerca si ferma lì. Da quel momento il disco di Bill Fay si impossessa di me e festa finita: almeno una volta al giorno devo ascoltare quest’album, quasi fosse un bisogno fisico. E siccome non può terminare così, con una questione privata, ho deciso di condividerla, questa ossessione. Anche perché la storia che si cela dietro il misterioso cantautore è a suo modo affascinante.

Bill Fay dunque, chi è costui? Sacrosanta domanda. Si tratta infatti di un misconosciuto cantautore inglese attivo (per quello che poteva) negli anni ’70 a Londra. Il primo singolo Some Good Advice/Screams In The Hear uscì per i tipi della Deram nel 1967. Il primo album invece vide la luce solo tre anni più tardi, nel 1970 (S/T). I riscontri commerciali di questo pomposo e orchestrale disco d’esordio (quasi prog oserei dire) furono, come ci si può aspettare, pessimi, nonostante la fattura dei brani fosse più che buona, forse un po’ troppo caricati per i miei gusti. Bill, viste le difficoltà incontrate, voleva cambiare aria, lasciare la Deram (una costola della più famosa Decca) e cercare magari fortuna altrove. Ma il contratto firmato qualche tempo addietro lo blindava lì e così ecco che il secondo disco, The time of the last persecution, viene fuori ancora una volta sotto l’egida della suddetta etichetta. Bill si affida questa volta ad arrangiamenti più semplici, le suite orchestrali sono ridotte all’osso e l’approccio assume una dimensione intimista. Il risultato artistico è davvero convincente, la bellezza del disco è manifesta e sbandierata, le canzoni sono una più bella dell’altra e tutto questo concentrato in solo 40 minuti (i pezzi sono 14, si badi bene). Niente da fare, fiasco completo anche a questo giro. Viene addirittura aspramente criticato per il look barbuto e capelluto (la rivista The Wire lo definisce un “mad bearded Rasputin with a resemblance to Charles Manson) con cui appare in copertina. Il povero Bill allora decide di ritirare baracca e burattini e  scomparire.

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Ma le cose belle, quelle belle davvero sono dure a morire. E nonostante la difficoltà nel reperire copie dei suoi dischi e nel racimolare informazioni su di lui, Bill una piccola fama, quasi racchiusa in un aura magica, riesce a ritagliarsela. Diventa uno di quegli artisti che piacciono agli artisti. Il grande pubblico gli è negato ma riesce a salire sugli allori di chi la musica la fa in prima persona. Un onore forse poco remunerativo ma forse la migliore delle ricompense se si pensa strettamente all’arte. Jim O’Rourke, gli Okkervil River, i Current 93 e i Wilco (con i quali addirittura nel 2007 e nel 2010 sale sul palco per cantare Be not so fearful – tratto dal primo omonimo), sono solo alcuni degli artisti che nel corso degli anni hanno deciso di coverizzare il cantautore inglese. La sua fama dunque cresce tanto da spingere alcune etichette – piccole –  a ripubblicare i primi due dischi, nonché a dare spazio ancora alla sua creatività. Esce così nel 2004 From the bottom of an old grandfather clock, raccolta di demo e rarità (ovvero rarità delle rarità) seguito nel 2005 da quello che sarebbe dovuto essere il terzo disco del nostro e non è mai stato, Tomorrow, tomorrow, tomorrow. Infine nel 2010 viene dato alle stampe addirittura un doppio, Still some light che vede nel primo disco una raccolta di rarità (ancora) e nel secondo invece un album homemade registrato nel 2009.

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Ed eccoci a The time of the last persecution, il nostro oggetto principale. Come detto esce nel 1971 inserendosi a cavallo tra il prog, che in quel periodo andava per la maggiore, e il folk-pop intimista di Nick Drake. Possiamo dire che Bill Fay è un buon compromesso: non disdegna l’orchestrazione ma al contempo ama le atmosfere morbide. Il suo strumento principe però è un altro, non la chitarra, bensì il piano. E si sente. Il primo pezzo del disco Omega Day parte proprio con una serie di accordi di pianoforte per poi lasciare spazio alla voce e al crescendo di fiati proto-soul. La chitarra fa da contorno ma lo fa bene. Seconda traccia è Don’t let my marigolds die, una classica ballad di pregevole fattura. Ma è con I Hear You Calling che il disco cambia passo elevandosi a capolavoro. Una dietro l’altra si susseguono canzoni senza tempo dalla perfetta struttura pop, equilibrate in ogni loro parte, liriche e allo stesso tempo concrete, che trovano i propri highlight (se di highlight si può parlare) oltre che nelle già citate Omega Day e I Hear You Calling, anche in ‘Til The Christ Come Back, Release In The Eyes, Laughing Man, Tell It Lik It Is, Plan D e Pictures Of Adolf Again. Ma è impossibile slegare questi pezzi dal resto del disco che rimane di altissima fattura, da sentire di seguito, volta dopo volte, canzone dopo canzone. Ed eccola dunque un’altra peculiarità, l’incredibile unità che lo possiede, da cima a fondo, quell’unità granitica che appartiene solo alle grandi composizioni. I miei toni sono entusiastici, lo so, e potrei sembrarvi davvero poco obiettivo. Ma è proprio per questo che ho aspettato diverso tempo per scriverne, quasi due mesi dal primo fulminante ascolto , per capire se fosse un effetto momentaneo o semplice suggestione vintage. Be’ devo dire che praticamente nulla è cambiato, e l’album veleggia tranquillo in cima agli ascolti, così come anche molte delle altre cose di Bill Fay. Una scoperta che mi porterò dietro ancora per molto.

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