Black and bleu, vive la (Motown) France

Se c’è una cosa che di questi tempi mi lascia piuttosto perplesso è la logica che sottosta alle uscite discografiche. Per mesi non si affaccia sul panorama musicale nulla che valga la pena di essere ascoltato, neppure mentre passi l’aspirapolvere in cucina e controlli il sugo che sta dipingendo il piano cottura e poi così, d’incanto, nel giro di due settimane, non uno, non due, ma dodici dischi di cui vorresti sapere di più impattano con le tue possibilità economiche.
Se ricordassi che cosa ascoltavo l’anno scorso di questi tempi potrei capire se si tratti di una logica precisa, del tipo “la grande boccata d’aria prima dell’immersione natalizia”, non avendone invece la minima idea mi limiterò a lamentarmi del fatto che non so davvero più cosa ascoltare.

In mancanza di nuove uscite degne di questo nome continuerò per un po’ sulla strada collaudata dei dischi usciti in un passato non troppo remoto, di cui non ho ancora scritto nulla e che un paio di parole se le meritano.
Nella mia prima recensione promettevo che avrei parlato di Ben L’Oncle Soul, prima o poi. Nella terza lo citavo di sfuggita. Arrivato alla quarta forse è il caso che riprenda in mano il suo album, Ben L’Oncle Soul, e che lo recensisca sul serio, prima che il buon cantante gallico ne metta sul mercato un altro.

Cominciamo col dire che Ben L’Oncle Soul si presenta al pubblico con tutte le carte in regola. Artwork originale, un bel suono e un EP, Soulwash, a fare da battipista. Ora, dall’uscita di Soulwash oramai è passato un annetto, ma considerando che la musica di Ben è più vicina al soul anni ’60 che non ai moderni sgallinamenti delle Taylor Swift del momento, quest’anno di vita di sicuro non avrà intaccato la freschezza del prodotto. È proprio con un pezzo dell’EP precedente che comincia questo nuovo album. Il brano Seven Nation Army non è altro che la cover dell’arcinoto brano dei White Stripes, in una veste inaspettata, che non perde la matrice dell’originale, ma non rischia neanche la scopiazzatura brutale. D’altronde Soulwash era proprio un album di cover e chi avesse la voglia e il tempo di andare a cercarlo scoprirebbe che, dalla prima all’ultima, la scelta delle tracce lascia piuttosto stupiti.

Ben L’Oncle Soul si snoda su una serie di tracce – quattordici per amor della precisione – costruite su linee di basso piuttosto spesse, accompagnate dall’immancabile sezioni di fiati e da linee di piano incisive, che non fanno rimpiangere lavori di soulmen più acclamanti. Ballate classiche come Mon amour si accompagnano a pezzi più aperti, come Soulman, brani che minacciano lo sconfinamento in territorio reggae (I don’t wanna taste) e pezzi come Come home, sospesi tra il peso della batteria e delle chitarre del ritornello e il tiro leggero delle strofe, rendendo l’album abbastanza vario da essere interessante e abbastanza unitario da non risultare sprecato.

Difficile trovare un difetto a questo album. Non sarà la risurrezione di Stevie Wonder, ma Ben L’Oncle Soul si colloca senza problemi al livello dei vari John Legend odierni, senza fare la figura del fratello minore e un po’ sprovveduto. Certo, se quello che si cerca è un sound nuovo, magari questo non è l’album dei nostri sogni, ma per quanto riguarda le possibili pecche, questo è proprio tutto.

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02 – Ben l’Oncle Soul – Soulman by ByNayon