Cambiare idea, viatico per tornare in sé praticando l’incoerenza

“Il momento per farsi un’idea sulle persone non arriva mai” (Katharine Hepburne)

“Bisogna decidere cosa venerare” (David Foster Wallace)

“Le rughe non coprirmele. Ci ho messo una vita a farmele venire” (Anna Magnani)

Cambiare idea: ottima idea da qui in avanti. Che sia l’etica da viaggio se cambiare idea pungola l’essere e sfocia qualche volta in produzione inaspettata. Intanto è cura, igiene mentale e sentimentale per chi la pratica: ne è convinta la bella e poliedrica scrittrice Zadie Smith che ha tematizzato la sua irrequietezza ideologica e ne ha fatto una professione di fede, l’unica possibile. Ficcare la testa in ogni dove, da Hollywood degli Oscar alla Liberia (come esploratrice dei mondi nel mondo) passando per l’Italia e tornando a Londra, pur di non accasarsi in casa del Diavolo (la propria), di non attaccarsi al chiodo fisso della propria identità, peraltro talvolta convenzionale e perciò sterile. Diventare girandola per non farsi raggirare dai testicoli in agguato in testa. È disciplina della mente modificare il punto di vista, smentirsi, perdersi nel mondo e abbracciarne di volta in volta un aspetto, per non soccombere al sé di chi professa coerenza a oltranza. Cambiando idea Zadie Smith ha partorito qualcosa che non immaginava: doveva essere un romanzo, poi un libro “solenne e teorico sulla scrittura”; è venuta fuori, dettata dalle scadenze imposte dall’editoria, una molteplicità di tracce su letteratura, cinema, impressioni, identità, vita, morte, metamorfosi: c’è anche il racconto della morte del padre e la registrazione della sua testimonianza di reduce dalla Normandia che non dice io, ma noi, inglobando anche i cattivi, i tedeschi. Insomma una raccolta di saggi occasionali, scritti cioè per occasioni specifiche, anzi no, ho cambiato idea anche io, forse è un non genere che contiene anche il diario e l’autobiografia, in uscita in questi giorni in Italia per Minimum fax. (La traduzione è di Martina Testa; la revisione della traduzione di Andreina Lombardi Bom). Zadie Smith, (autrice dei romanzi Denti Bianchi e Della Bellezza), presenta il suo “cambiare idea” giusto oggi al festival delle letterature di Mantova (Giovedì 9 settembre ore 18.30, Chiostro del Museo Diocesano)

“L’incoerenza ideologica è per me un articolo di fede”, dichiara Zadie nella prefazione. È un talento naturale, il suo, rafforzato da una condizione speciale, di chi è ibrido, nero e bianco insieme, che lo fa essere “doppia coscienza”, e regala una vocazione alla pluralità , al polisenso.”Quando uno porta la propria molteplicità stampata in faccia, tematizzata in maniera quasi troppo ovvia, nel Dna,nei capelli e nel beige poco definibile della pelle, be’ si vede subito che viene dalla città dei sogni”, scrive nel testo della conferenza dedicata a “Il dono delle lingue”. La condizione, la sua, è, potrebbe essere quella del tragic mulatto, di chi come Zadie, padre bianco inglese e madre afro giamaicana, è di razza mista, ma detesta la collocazione e nei questionari si definisce nera; la stessa categoria della “sventurata mezzosangue nella letteratura americana dell’Ottocento, nel dramma dei transessuali, nella nostra odierna angoscia – camuffata da nobile sollecitudine – nei confronti degli immigrati, tragicamente scissi, ne siamo certi, tra mondi, idee, culture, voci diverse: che ne sarà di loro? Qualcosa deve cedere: una voce andrà sacrificata a beneficio dell’altra”. Obama è l’uomo dalle tante voci, che parla la lingua dei bianchi e dei neri e apre un orizzonte nuovo. In letteratura ci aveva già pensato molto tempo prima William Shakespeare: “più ancora che per la sua abilità linguistica lo amiamo per la sua mancanza di lealtà a una singola causa. Impossibile perché nelle sue opere teatrali “è donna, uomo, nero, bianco, credente, eretico, cattolico, protestante, ebreo, musulmano”. I poeti sono stati e continuano a essere i campioni di una pluralità di voci, roba da matti, “un dono complicato per un presidente, ma nei poeti è una pura delizia che non ha bisogno di apologie o spiegazioni”. Per Zadie è questo il salto quantico, quando “la voce si spossessa di sé, sviluppa un senso di dissociazione creativa in cui le istanze che le sono proprie non sembrano più forti di quelle di chiunque altro”.

L’io si fa noi. Noi commensali alla tavola del mondo, nei panni di chiunque e senza credenze, a parte il possibile. E allora Zadie, si fa abile trasformista, cambia d’abito, il tempo di sorvolare su una suggestione che dà incoerenza e intanto accende una luce di verità per poi ripartire; di volta in volta cerca testimoni a suo favore, tra chi ha incarnato l’esserci come singolare plurale, come diversa presenza e ha seminato cambiamento antropologico. Tra le pagine, un suo mito dell’infanzia, Katharine Hepburne, prima tra le sue “visioni” femminili; creatura antiretorica per eccellenza per la quale “non si trattò mai di cambiare per adeguarsi a Hollywood; fu Hollywood che dovette cambiare per adeguarsi a lei”. C’è la nostra Anna Magnani, scoperta nel soggiorno italiano, paese che alla voce donne sta a significare “degradante sessualizzazione, quotidiana umiliazione televisiva, paternalismo berlusconiano, esigua presenza parlamentare, invisibilità all’interno della Chiesa”. Tra le macerie nostrane, svetta per Zadie l’immagine prorompente di Anna Magnani in Bellissima di Visconti: bellezza anticonvenzionale “senza il minimo sforzo cosmetico, e soprattutto senza nutrire alcun interesse per la cosmetica”. E il film “è un caso raro nel cinema italiano: un film in cui la donna non è un problema posto a un uomo”. Zadie pratica la critica come amore attivo e incontra lo scrittore a lavoro. Mirabile in tal senso, più dei testi dedicati a James, Barthes, a Nabokov lo scritto su “F. Kafka, uomo qualunque”. Kafka è stato travisato dall’ideologia del suo biografo e amico Max Brod che l’ha voluto restringere nelle vesti del profeta pedante.

Per Zadie, Kafka è uno scrittore di grande potenza comica, che aveva orrore di ogni assimilazione a chicchessia, individuale e collettiva, e perciò cambiava voce e anche aspetto fino alla grande invenzione dello scarafaggio. E la sua domanda da ebreo non assimilato resta la nostra domanda: “La questione ebraica di Kafka è diventata la domanda di chiunque e l’alienazione ebraica il modello per tutti i nostri dubbi. Cosa vuol dire essere islamici? Cosa vuol dire essere donne? Cosa vuol dire essere polacchi? Cosa vuol dire essere inglesi? Al giorno d’oggi, tutti noi ci ritroviamo ad agitare le zampe anteriori in maniera scomposta. Siamo tutti insetti, tutti Ungeziefer, ormai”. Gli scrittori sono l’avanguardia di ogni metamorfosi e spesso lo testimoniano con il loro vivere ma ancor più con il morire all’io. Di doni ne aveva tanti David Foster Wallace, morto suicida due anni fa, a cui Zadie dedica il lungo e complesso saggio finale, cominciato a scrivere quando era vivo, e diventato un omaggio attraverso l’analisi dei racconti “Brevi interviste con uomini schifosi”. Zadie lo definisce scrittore di parabole, capace di cambiare linguaggio e registro per entrare nella testa di ogni suo personaggio e mostrarne la condizione solipsistica. Come Kafka, su cui tra l’altro aveva tenuto un discorso, anche Wallace, annota Zadie, si contraddistingueva per “l’attaccamento alle parabole, l’orrore per l’individualità nella sua pienezza, il sogno dell’annullamento di sé”, di quel falso sé che come i mistici e i buddisti Wallace ripudiava. Fino alla scelta del cambiamento estremo. L’oblio di sé.

Titolo: Cambiare idea
Autore: Zadie Smith
Editore: Minimum Fax (collana Sotterranei)
Dati: 2010, 424 pp., 19,00 €

Acquistalo su Webster.it