Caravaggio: tra natura e simbolo

La mostra “Caravaggio” alle Scuderie del Quirinale, pur nella oggettiva difficoltà di fruizione determinata dall’ingombrante frapporsi di un eccesso di visitatori “audioguidati”, presenta un’esposizione di opere centrata e lineare.

Meritevolissima, in questo senso, la scelta di un percorso non antologico, ma sintetico e coerente, di soli capolavori di sicura attribuzione, capisaldi della pittura di Caravaggio che  danno la cifra di un lavoro poliedrico e unitario allo stesso tempo.

La selezione delle opere presenta l’altro importante merito di aver accentrato tele dai musei più disparati del mondo (Il suonatore di liuto dall’Ermitage di Mosca, I musici dal Metropolitan Museum di New York, L’amor vincitore da Berlino, La cena in Emmaus dalla National Gallery di Londra, I bari dal Kimbell Art Museum di Fort Worth, solo per fare alcuni noti nomi): la vita errabonda del pittore sembra riflettersi nel destino geograficamente disparato dei suoi quadri, condannati a una diaspora che ne fa perdere il senso d’insieme, finalmente riuniti a Roma in questa sede. Corretta anche la scelta di non spostare la produzione romana dalle chiese stimolando il visitatore a recarsi direttamente in loco per meglio apprezzarne la collocazione originaria.

Ad aprire la mostra vi è la Canestra di frutta, per la prima volta “strappata” alla Pinacoteca della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano. Un incipit indovinato e profetico che misteriosamente sembra anticipare tutti i temi della produzione successiva. Come è noto la fiscella non è solo una natura morta ma una composizione ad alto valore simbolico, che dice della caducità e corruttibilità della vita nelle foglie accartocciate, ed enuclea il senso di una pittura che vuole essere dogmaticamente fedele al vero. Nelle stesse parole di Caravaggio riportate in un pannello esplicativo si legge il concetto che il Maestro aveva di valente uomo “…quella parola valent’homo appresso di me vuol dire che sappi far bene, cioè sappi far bene dell’arte sua, così in pittura valent’huomo che sappi depingere bene et imitar bene le cose naturali”. (1603)

L’allestimento, nella sua sobrietà, fornisce la chiave di lettura della mostra il cui unico criterio ordinatore è quello cronologico: tre diversi colori fanno da sfondo alle opere a sottolinearne l’appartenenza ai tre periodi della giovinezza, del successo, e della fuga. Inevitabilmente questa scansione non è solo temporale ma si riflette nella poetica caravaggesca, annunciata nella produzione giovanile, vigorosa nel periodo del successo e drammatica e febbrile nel periodo della fuga.

E comunque, aldilà di ogni scansione temporale-tematica, l’unitarietà di tal poetica irradia orizzontalmente da ogni opera nell’importanza della luce “spiovente” che taglia diagonalmente lo spazio pittorico, nel sentimento di una bellezza egalitaria che emana dalle cose più alte come dalle più umili, religiosamente vera, mai artefatta, e nel già citato cogente valore allegorico presente in ogni opera sempre tesa a suggerire un senso ultimo trascendente la situazione rappresentata, come nel tableau vivant dei bari che porta in scena il contrasto fra giovinezza ingenua e inganno.

Utile ai fini della comprensione dell’opera del Maestro, l’accostamento tematico di diverse versioni di uno stesso soggetto; celebre la Cena di Emmaus nelle due produzioni di Londra e di Messina, che confermano l’impegno mai ripetuto uguale a se stesso del lavoro del Maestro per il quale, per dirla con Longhi la “[realtà] di un dipinto non poteva verificarsi che una volta sola”.

Anche il finale, come l’inizio della mostra, non è lasciato al caso: a chiudere la visita, quasi un congedo, c’è l’Annunciazione di Nancy con l’angelo enigmaticamente di spalle, dal volto seminascosto.

CARAVAGGIO

Roma, Scuderie del Quirinale

fino al 13 giugno 2010