Come lavare via Un sapore di ruggine e ossa

In un film è più inopportuno lo zoom o il ralenti? Forse lo zoom, ma anche il ralenti non scherza. Di certo Jacques Audiard (Il profeta, 2009) non la pensa così, e anzi, casomai fossero sfuggiti allo spettatore distratto, si premura di incorniciare, in una bolla di enfasi diluita, quasi tutti i momenti topici del suo ultimo film, Un sapore di ruggine e ossa, tratto dalla raccolta di racconti del canadese Craig Davidson (Einaudi Stile libero, 2008). Va detto che è piuttosto arduo adattare per il cinema una raccolta di racconti, a meno che non ci si trovi a proprio agio nel territorio delle narrazioni corali, come poteva accadere per Robert Altman, che in America oggi (Short cuts, 1993), raggiunse un risultato dignitoso traducendo in immagini le storie di quieta disperazione di Raymond Carver. Di solito, invece, si è catturati dall’atmosfera del libro, si scelgono uno o due racconti più funzionali al progetto, li si incrocia, si cerca di dare compattezza filmica e poi, se non sei solo un regista ma anche un autore – certo – personalizzi le inquadrature con le marche del tuo stile. I ralenti, ad esempio. Basta prendere una scena a caso.

È il dente insanguinato di Ali (Matthias Schoenaerts), quello che rimbalza in scena – senza fretta – dal fuori campo di un incontro di boxe: soltanto l’ultimo dei lavori che si accavallano per arrivare a fine mese. Avete presente Al Pacino dopo che scarica l’avvocato – Sean Penn – e la sua pistola in Carlito’s way, lasciandolo preda del sicario e poi gettando i proiettili nel cestino in slow motion?  Bene, qui è solo un dente divelto, e l’omissione dell’incontro – oltre a rimandare alla dentatura di un’orca, come vedremo, involontaria assassina – serve pure a contenere i costi: prendete il combattimento di Butch/Bruce Willis in Pulp Fiction: vediamo il prima e il dopo, la storia fila via liscia e il montaggio taglia pure il budget. Ma ritorniamo ad Ali, che in Un sapore di ruggine e ossa fugge dal suo passato in direzione Antibes, sud della Francia, dove si cura del figlioletto part-time affidandolo alla sorella e si arrabatta in una serie di lavori “fisici” – oltre a menar le mani – del genere sorvegliante notturno o buttafuori in discoteca. Proprio in un locale incontra Stéphanie (Marion Cotillard), bella, scostante e instabile, che addestra le orche e scruta e rifugge gli uomini che la desiderano. Fintanto che. Fintanto che non arriva subitaneo l’incidente prescelto per infiammare la trama.

Le orche, lo sanno tutti, sono animali ben più aggraziati di quanto la mole non le faccia sembrare, ma ci pensa sempre il caro vecchio ralenti, fra gli spruzzi in controluce, a rendere impalpabile ogni residuo sentore di gravità. Però, prima o poi, ricadono. Una in particolare investe Stéphanie, che non sarà mai più quella di prima. Sul motivo, sempre di forte impatto sul pubblico, della disabilità (nell’incidente Stéphanie perde tutte e due le gambe), verterà quindi lo sviluppo del film.

Stéphanie sperimenta subito quanta solitudine possano regalarti gli umani, ma visto che l’attrazione segue solo le regole dell’attrazione stessa, non esita a chiamare Ali, che sembra se non altro immune, nel bene e nel male, da quella cortina di finzioni e mascheramenti che di solito si frappongono tra il pensiero e le nostre azioni. Emarginato-di-lungo-corso più emarginata-acquisita al cinema formano una bella coppia (e tranquillizzano pure il pubblico): l’atletico Ali, grazie alla sua incapacità di provare emozioni a lungo termine, è infatti l’unico a trattare Stéphanie come prima dell’incidente (per lui due gambe amputate vogliono dire andare in carrozzina, fine delle implicazioni), e diventerà l’appiglio al quale aggrapparsi per tornare a galla. A questo proposito non ci viene risparmiata nemmeno la scena – che cita, senza volerlo, il tenente Dan in Forrest Gump, quando si tuffa liberato dal peschereccio dei gamberi –  di Ali che l’accompagna in mare e le permette per la prima volta, dopo il trauma, di non sentirsi più menomata nell’elemento che la contiene.

No, non è questa la scena più sconfortante: ce n’è un’altra che vede Stéphanie in balcone ripetere i gesti che faceva quando guidava le orche, accompagnata in sottofondo dalla stessa canzone di quelle coreografie, Firework di Katy Perry, un brano che rivaleggia in cattivo gusto forse solo con Beautiful di Christina Aguilera: due esempi di pop singer che, pur avendo lo spessore di un monitor LCD, invitano i loro fan più disagiati a tirare fuori quanto di beautiful hanno dentro, come fossero, appunto, dei fuochi artificiali (sic). Detto questo, per non scontentare nessuno, ci sono anche brani più indie-modaioli come Wash di Bon Iver o State Trooper di Bruce Springsteen remixata da Trentemøller, il tutto ben modulato con i temi composti da Alexandre Desplat, collaboratore abituale di Audiard e maestro nell’ingenerare pathos (Il discorso del re, The Ghost Writer, Tree of Life). Perché questo è un film che vi coinvolge – inutile farsi schermo dietro l’ironia – a meno che non siate cinici e anaffettivi come lo scrivente. E pazienza se ogni ostacolo affrontato dai personaggi si converte subito in spinta per andare avanti, con una meccanicità ribadita anche nei rimandi interni al plot (Ali fa jogging mentre passa l’ambulanza che porta Stéphanie all’ospedale); pazienza se la figura di Ali, ammirabile sul piano narrativo per la vitalistica ottusità, viene intaccata nel sottofinale da un rigurgito di sentimenti paterni: quello che Audiard voleva mettere in scena era un gran bel film che trascendesse i limiti del melodramma. Il messaggio è fin troppo ribadito. Magari, la prossima volta, limitandosi a girare un melodramma, potrebbe venire fuori pure un gran bel film.

Un sapore di ruggine e ossa (POSTER)Un sapore di ruggine e ossa – Belgio, Francia 2012
di Jacques Audiard
con Marion Cotillard, Matthias Schoenaerts
BIM – 120 min.

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