Corpi, specie in via d’estinzione per l’antico vizio occidentale di colonizzare il mondo e renderlo ovunque uguale

E caddi come corpo morto cade

Corpi come specie in via d’estinzione. Paradossi di carne da manipolare come plastilina. La rivincita del panda o chi per lui. Con un talento che nessuna specie ha, pur moltiplicandoci, stiamo sparendo, noi umani, azzerando le differenze. L’Occidente ha globalizzato ogni cosa, non ultime ma più minacciose e inestirpabili, la nevrosi dell’apparenza e dell’apparire, la propagazione dell’identico e il culto dell’immagine per placare l’ansia del diverso, l’odio di sé e la sua proiezione sull’altro. La missione e il senso della vita individuale su scala mondiale stanno diventando sempre più costruire il corpo “giusto” secondo canoni ristretti e una manciata di modelli; la varietà comincia a essere avvertita come un vizio di forma, una stonatura. I corpi vivi, veri e vari, autenticamente imperfetti, asimmetrici, plissettati e pieghettati, sghembi e irregolari, usurati e attraversati dal tempo, minuti come mastodontici, a pera, a mela, ad otre o a botticella e così via, sono sempre più un problema per i legittimi proprietari, ma soprattutto proprietarie, e il contesto circostante, a Londra come a New Dehli.

L’unica religione davvero ecumenica del nostro tempo, è quella che propaga il verbo estetico-maniacale e il credo corporeo, perfidamente fomentata e incrementata da industrie alimentari, farmaceutiche, estetiche e della moda, ben spalleggiate da cinema, pubblicità e tv, che in combutta si nutrono dell’insicurezza e della instabilità fisica dell’epoca. Il ritratto nudo e crudo di ciò che siamo o stiamo diventando, ovunque, chiunque, in un processo di democratizzazione apparente quanto demenziale e di una mutazione senza precedenti, è di Susie Orbach, psicoterapeuta e psicoanalista inglese. Lo si trova  nel suo ultimo lavoro, “Corpi” (pubblicato in Italia da Codice edizioni) che si legge tutto di un fiato con crescente preoccupazione e riconoscimento di qualcosa che ci accomuna. Siamo schiavi di noi stessi, dei nostri corpi perché non gli permettiamo d’essere ciò che sono.

Stanno scomparendo specie animali e vegetali, scompaiono lingue e dialetti, perché meravigliarsi se le morfologie corporee per secoli diversificate secondo cultura, credenze, etnie, stili di vita, rischiano d’estinguersi e l’omologazione prevale visto che la grammatica visiva ed estetica sta diventando la stessa ovunque su scala mondiale? L’ultima forma di colonialismo, di imperialismo occidentale, la più devastante perché ha in sé elementi di irreversibilità, è la monomania corporale che impazza ovunque.  Un tempo il corpo serviva per lavorare e dettava esigenze primarie legate alla sopravvivenza, alla procreazione, al soddisfacimento della fame e alla ricerca di un rifugio sicuro. Oggi è l’esito di una costruzione individuale per apparire, è il luogo della propria esibizione. “In Giappone e in Kenya, nelle isole Fiji e in Arabia Saudita, i tentativi dei giovani di rimodellare il proprio corpo secondo i canoni occidentali sono testimoni di una sofferenza corporea diffusa in tutto il mondo. L’odio per il corpo sta diventando una delle esportazioni occulte dell’Occidente”.

La Orbach sintetizza il fenomeno con l’espressione “terrorismo della bellezza”. “Milioni di persone, letteralmente milioni, lottano quotidianamente contro sentimenti di vergogna e inquietudine dovuti al loro aspetto estetico. Non è un problema banale. Non fatevi ingannare dal fatto che questo conflitto individuale possa esprimersi come vanità, e che talvolta venga erroneamente scambiato per tale. La questione è molto più seria di quel che appare a prima vista e se oggi la sua gravità non è riconosciuta è solo perché essere angosciati per il proprio aspetto è ritenuto normale”. Cosa è allora il corpo, cosa è diventato in questa epoca? Di che corpo viviamo e con che corpo moriamo? Cosa sta accadendo ai nostri corpi? Sono vittime di una mutazione antropologica senza precedenti. “La nostra potrebbe essere l’ultima generazione ad avere una certa familiarità con il proprio corpo (…) Oggi si impiantano organi nuovi, si generano figli selezionati in provetta per salvarne altri malati, si sostituiscono le parti logore e si rimodella il corpo, ma soprattutto ci si sente psicologicamente autorizzati a fare tutto questo. Il corpo si trova tra un’epoca postindustriale e una in cui l’organismo verrà progettato a tavolino da bioingegneri”.

La psicologia del corpo si è fatta problematica e ansiosa. Per la Orbach, fondamentali sono i “primissimi contatti con i genitori o chi per loro, che trasmettono gli imperativi della cultura in cui si è nati, con la sua sfilza di prescrizioni su come il corpo dovrebbe apparire e come dovrebbe essere trattato”. Già l’alimentazione prenatale influisce sul formarsi della nostra “architettura cerebrale” E non basta. Non esiste un corpo che sia “naturale” come i tonni della pubblicità, “è un’idea semplicistica”, la natura in noi è sempre cultura e cultura della relazione.  “La matassa ingarbugliata di contatti fisici è ciò che forma il nostro corpo unico e individuale, e la storia corporea familiare di ciascuna persona, fatta di trattamenti fisici ricevuti dai genitori e trasmessi ai figli, si intreccia a sua volta con la storia culturale del corpo in cui i genitori e figli sono immersi”. I nostri corpi sono costruiti, dunque, da sempre ma la cultura visiva imperante ha trasformato “il nostro rapporto con il corpo in un luogo di ipercriticismo”. Si tratta di una grave patologia sociale che però è sperimentata in maniera privata e individuale ed è questa la tragedia. Fenomeno  “che coincide con un’ossessione culturale per il corpo”, in crescita esponenziale per la Orbech, sempre più visibile negli studi medici e professionali nelle forme dei vari disturbi alimentari e non. In questi studi vagano anime che si sentono spezzate e sono alla ricerca di un corpo, perché più sono esibiti e imposti a modello, i corpi, e più ci scorporano dal nostro di corpo. “Spesso i terapeuti non riescono a dare ai pazienti l’opportunità di trovare un corpo per sé perché le loro stesse ansietà legate al proprio corpo fisico sono talmente gravi che le sedute con due corpi senza corpo, ansiosi o che odiano se stessi risultano troppo difficili”. In questo affresco si inseriscono i mercanti di odio per il corpo, la chirurgia estetica che “diventata un bene di consumo: un regalo, come una vacanza”, i format televisivi che mostrano una parata di corpi “normali” per lo più femminili, sottoposti a operazioni chirurgiche.

La tv può tutto: “ora assistiamo a una diffusione capillare delle stesse immagini su scala quasi  mondiale. La globalizzazione uniforma la cultura visiva, per cui ciò che si vede sui muri di Londra non è più tanto diverso dai cartelloni di Rio, Shanghai, o Accra. Abitiamo nel villaggio globale di Marshall McLuhan , condividendo immagini identiche in tutto il mondo”. Marchi stilistici e visivi che ci rassicurano, ci danno un senso di familiarità e appartenenza a una storia globale. La manipolazione del corpo è sempre esistita in ogni tempo e cultura; di nuovo c’è che ora è slegata da qualsiasi rito sociale e diventa una questione individuale. Oggetto di un attacco senza precedenti è il corpo femminile. La magrezza, persino in gravidanza, decreta il successo, diventa un imperativo  “etico”. La globalizzazione promuove “il modello idealizzato occidentale della donna magra come obiettivo a cui uniformarsi”. E così alla fine si cerca un corpo “smaterializzato e ironicamente incorporeo”. O un corpo cibernetico plasmato dalle fantasie della mente degli ingegneri”. Il successo personale sta nel regolare il corpo: “controllarne gli appetiti, le emissioni, le necessità e l’invecchiamento” . Costruire o ricostruire il corpo per mezzo di diete, esercizi, chirurgia estetica, è un dovere: “il corpo è diventato sia una dichiarazione d’intenti sia un luogo di responsabilizzazione”.  L’individuo cerca un corpo affidabile per sfuggire al senso di vergogna corporeo, ma per definizione il corpo è instabile. Il riscatto individuale a tutte le latitudini è regalarsi un corpo standardizzato. “Da Caracas a Riad si assiste a una nuova uniformità fisica che predomina sia sotto il velo delle musulmane sia sotto la parrucca e la gonna lunga delle ebree praticanti. Gli ideali occidentali che prescrivono un fisico snello, il naso di un certo tipo e un aspetto giovanile a tutte le età sono perseguiti ovunque”. Dalle trasformazioni alla Michael Jackson all’occidentalizzazione degli occhi delle coreane e delle cinesi, alle operazioni ortopediche per farsi allungare gli arti ed essere più alte, tutto ci parla di una travagliata ricerca di un corpo in cui vivere in base alla riconoscibilità. Ecco che le differenze culturali tra i corpi si annullano.

L’industria dell’immagine mediatica è un nemico subdolo, potentissimo, che pare invincibile. Susanne Orbach propone antidoti pragmatici secondo lo stile anglosassone: prendere corpo, incarnarsi, restituire al corpo la sua variegata materialità perché torni ad essere il luogo della nostra vita invece che una aspirazione impossibile da raggiungere. La casa in cui vivere e con cui convivere fino al congedo invece che la cella del prigioniero.

Titolo: Corpi
Autore: Orbach Susie
Editore: Codice
Dati: 2010, 129 pp., 17,00 €

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