Cosa resta della fiera della piccola e media editoria?

La condanna a sostare cinque giorni alla fiera della piccola e media editoria di Roma da maestranza può rivelarsi una fortuna. Dalle retrovie si ha un punto d’osservazione privilegiato e si ammira un paesaggio che racchiude l’alto come il basso, la scarpa tirata a lucido e il calzino bucato al suo interno. Come un venditore di almanacchi di leopardiana memoria che però sul carretto trasporta colli di libri, e carica e scarica, e inscatola ed espone la merce, si possono registrare nei moti verbali di altri merciai l’affanno mondano e le mode dell’inganno; si può rispondere a domanda, oppure restare in silenzio limitandosi a osservare. Quanta passerella di maschere anche quest’anno in ben cinque giorni di vasodilatazione obbligata e vuoto a perdere. Quanta gaiezza d’apparenza e quanta esultanza ingiustificata.

Che sia un mondo saturo, che sia una nave che ha imbarcato dentro di tutto, che sia un patchwork tenuto insieme da una ferrosa spilla da balia te ne accorgi quando stando oltre le quinte vedi certi squallidi trucchi all’opera. La casa editrice che, un colpo agli stinchi e un sorriso di facciata, ha estromesso l’altra, concorrenza sleale di chi è già spacciato; quella che ingaggia stagisti a fare da rappresentanza; quell’altra un tanto al giorno al venditore di turno, niente pasti né buoni ma resti di niente; la grande officina di cultura ti tiene al banco come cacciagione, poi però ti dà la provvigione. Ecco passa il cotale intellettuale e l’altro e il caso clamoroso e il giornalista sempre in pista e ancora lo scrittore che non scuoce, distante da Dante, ma siamo nel postmoderno.

Che occasione è mai questa? Cosa avviene di fondamentale? Chi parte e chi resta? Cosa è questo mondo straccivendolo di cultura: è ripassata o debordata? Non era meglio l’aratura? Non sarebbe almeno il caso ora finalmente di una potatura? La ‘cultura’, codesta cultura, non è duratura, è caduca ma pesa: provate a trasportare i colli, vedrete se ne risentano i calli. Altro che taralli! Che roba è una fiera dell’editoria?  Che roba è questa fiera? L’avete capito voi aggiornati? Fiera è termine che al limite puoi associare all’immaginario dantesco o al classico repertorio dei bestiari. La fiera è per noi maestranze quel raduno annuale in cui nel Medioevo mercanti ambulanti vendevano prodotti agricoli ai locali. Ci sono in questi raduni editoriali vere primizie? Fiera della piccola e media editoria, poi, è espressione che fa accapponare i capponi. Vai a capire chi e cosa è piccolo o medio editore. Che sia tutta una gran compravendita di animali ammansiti? Che ci sia chi guadagna e fa cuccagna? Poi, dietro le quinte, raccogli le dolenze perché non si vende, perché l’ultima fondamentale pubblicazione di Modesto Modestini non ha riscontri di vendite. Qualcuno ti dice però che, fa niente le vendite, importante è esserci, è vetrina, visibilità, relazioni sociali. L’antisociale non piace. Ma visibilità autoreferenziale? Sì, anche una foto e via da gettare in rete e pubblicare su facebook. Forse l’evento è etichettato così stando al senso figurato della parola fiera: confusione, bolgia. Ecco cosa è la fiera della piccola e media editoria di Roma: un gran bazar, una grande bolgia. Un ottundimento dei sensi. Un circo di fiere. Ci aspettiamo da un momento all’altro lo sbarco di libri made in China, scritti anche da padroncini cinesi e il cerchio è completo. Tanta è la bolgia che quasi si dimentica una cosa fondamentale: il libro esiste ancora, è un oggetto bello, un viatico verso l’aldilà. Al di là? Sì, oltre le patacche. [Piera]

One thought on “Cosa resta della fiera della piccola e media editoria?

  • Dicembre 16, 2011 alle 9:02 am
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    Questa mia riflessione ne ha ispirato altre: http://associazionecartastraccia.blogspot.com/2011/12/albi-illustrati-o-libri-dartista.html
    Ho letto con interesse, volevo solo aggiungere che il fatto che io consideri gli albi di Orecchio acerbo o di Topipittori per bambini non toglie o esclude la possibilità che siano godibili anche per un pubblico più maturo. Ci sono poi fiabe crudeli e crude che per il loro essere tali non possono essere indorate e quando lo sono fanno ancora più paura. Si cita “Hansel e Gretel” di Mattotti, che avevo considerato qui http://www.atlantidezine.it/?p=1529, aggiungo “Il pifferaio magico di Hamelin” di Robert Browning edito da Topipittori (http://www.atlantidezine.it/?p=10976), potrei anche inserire nel contesto “lo strano animale del signor Racine” di Tomi Ungerer per citare almeno una fiaba contemporanea (http://www.atlantidezine.it/?p=17357). Ebbene le viltà, la crudeltà, le solitudini e gli abbandoni di cui queste fiabe sono pregne non possono essere rese con leggerezza. Sono gli Ur-autori che rimarrebbero scossi da una resa zuccherina (così come la strega paffuta e colorata di certi prodotti pop up da consumo usa e getta non è meno terrorizzante per un bambino: rimane una cannibale spietata, sia che sia resa meravigliosamente cupa, sia che sia violetto, brillante e morbidosa).
    Alla base del discorso resta la necessità che il libro sia partecipato e letto assieme ai bimbi e ben venga, invece, che i ragazzi possano trovare anch’essi nutrimento in albi illustrati per bambini grazie alla profondità mai banale della grafica e dell’illustrazione.

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