Django e l’iper-western tarantiniano

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Quello di Quentin Tarantino è un cinema ad orologeria, programmatico e perfetto nei suoi meccanismi interni, sempre ben studiati a tavolino. Tra i segreti del mestiere dell’orologiaio del Tennessee c’è sicuramente il saper muoversi con maestria attraverso i generi, montati e smontati come pochi sanno fare, nonostante le molte imitazioni.

Iniziamo quindi dal genere la nostra intrusione tra gli ingranaggi di quest’ultima creatura. La sfida di Django unchained è tra le più ambiziose, essendo il western il genere per eccellenza del cinema americano, il più antico ed esigente, irrimediabilmente diviso tra storia e mito, tra realtà e falsificazione. Se infatti il “primo western” di Porter (The great train robbery, 1903) può essere considerato un inconsapevole precursore del neorealismo (la prima rapina in automobile è datata 1911 nei pressi di Parigi, messa a segno dalla famigerata banda Bonnot), nel secolo seguente abbiamo assistito all’evoluzione del cowboy da eroe senza macchia a bandito sanguinario (pensiamo al passaggio da Ombre rosse a Sentieri selvaggi) e degli indiani da feroci assassini a vittime (Piccolo grande uomo, Soldato blu, con un occhio al Vietnam più che ai “pellerossa”). Il contributo dato in questa direzione dall’Italia è notevole, avendo spinto il genere verso le vette iperrealiste e violente che conosciamo, quelle di un mondo popolato da pistoleri infallibili e spietati, sadici e votati solo al dollaro.

Tutto ciò per dire che l’utilizzo del western, per di più con una sfumatura all’italiana, consente a Tarantino di danzare abilmente sulla linea che separa la storia dalla farsa, la datazione del film (1858) dai numerosi anacronismi, la realtà dello schiavismo dall’irrealtà della vicenda, le violenze reali dalle concessioni pulp, il riferimento alla frenologia dal siparietto degli incappucciati (precursori del non ancora nato ku klux klan e padri spirituali dei “nazisti dell’Illinois”), in una (con)fusione che alla fine appiattisce le differenze tra i due registri sino a renderle indistinguibili, fino a renderle fiction.

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Per cui lo sfondo storico è puramente funzionale al proseguimento del filone ucronico inaugurato nel film precedente, dove all’innocente giovane ebrea trasformata dalla storia in vendicatrice (sempre la vendetta!) che arriva a realizzare il sogno di intere generazioni di cittadini (salvo qualche eccezione della quale non ci curiamo di sostenere le ragioni), cioè uccidere Hitler, si sostituisce l’eroe nero che vendica gli schiavi, anche se sembra vendicare solo se stesso, in perfetto stile western, o se si preferisce nello stile del violento e amorale individualismo americano.

Quanto alla trama, così come nello stile del Nostro, si tratta di una serie di pretesti per mettere in scena i virtuosismi dell’autore, sempre più il movente principale del suo cinema, con gli omaggi del pubblico e della critica. Non si aspetta di vedere cosa succederà, essendo tutto già visto e prevedibile, ma solo come verrà messo in scena. Non a tutti è concesso questo privilegio, e Tarantino ha saputo ritagliarsi questa sua identità di illusionista nel corso di una filmografia che già a partire dal suo capolavoro Pulp fiction diceva che non c’è più niente da dire, che il frammento vale più dell’insieme, autentico manifesto postmoderno.

Aggiungiamo in conclusione che il fatto che l’architrave narrativo del film sia il donchisciottesco afflato del bravo e premiato Waltz per una “nativa” Broomhilda/Dulcinea (in ogni caso relegata ad un ruolo poco più che ornamentale, anche qui in continuità con il genere, ma insolitamente in Tarantino, che ha sempre fatto delle eroine il suo marchio di fabbrica) costituisce un elemento di debolezza narrativa, l’introduzione di un “buono” nella sua filmografia che stona col mondo violento del film e sembra una scorciatoia narrativa perché accada quello che ordina l’orologiaio, presente in corpore, non a caso, in una delle scene meno credibili del film (quale cowboy che si rispetti metterebbe una pistola carica in mano ad un negro?).

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5 thoughts on “Django e l’iper-western tarantiniano

  • Marzo 11, 2013 alle 5:19 pm
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    Bella recensione, ma non sono d’accordo nel ritenere il personaggio del Dr Schultz una “debolezza”. Django è anche e soprattutto una fiaba. C’è un eroe, una principessa da salvare, un “drago” e ovviamente un aiutante magico. Il Dr Schultz è un po’ fata madrina, un po’ regista/demiurgo e si inserisce perfettamente nel film. O magari ho capito male io la sintassi della frase, che è un po’ ingarbugliata…in ogni caso il Dr Schultz è una delle creazioni più vivide e potenti di Tarantino, un personaggio di rara empatia, probabilmente il primo nella sua filmografia ed è assolutamente necessario all’economia del film.

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