L’umanesimo glaciale di Refn è il Cinema del Futuro.
Conservo nitido il ricordo di poche voci nella sala da proiezione: alcuni spettatori chiedono che il biglietto gli venga rimborsato. Mi pare avessero la malriposta speranza di assistere illanguiditi allo sciogliersi sullo schermo di biografie dissolute e spericolate, descritte al suono di motori roboanti e ardimentosi a là Fast and Furious. Deluse nelle aspettative, ma non rassegnate, quelle voci hanno continuato nell’intento, incapaci di sfinirmi. Conservo il ricordo: io che provo a sciogliere l’emozione che mi inchioda alla poltrona per l’incipit magnifico, stupendo, e la sala che recalcitra, rumoreggia, infida. Conservo nitido il ricordo: Ryan Gosling perfettamente stretto al volante, la musica di Cliff Martinez & Co. a tenergli il fianco, due malviventi persi nei passamontagna, il pericolo sventato, i titoli di testa e come per incanto io che mi assemblo alla poltrona in un corpo unico di braccia e braccioli. Incredibile, mi dico.
L’eclettismo e la debordante energia del cinema del quarantenne danese Nicholas Refn (autore dei notevoli Pusher, Bronson, Valhalla Rising) trovano una sintesi e una misura perfette in Drive, gesto d’amore incondizionato per il cinema del passato (in testa il noir degli anni Settanta). Tratto dal romanzo The Driver di James Sallis, è la storia di un asso del volante (interpretato da Ryan Gosling) con una doppia vita: di giorno si guadagna da vivere come stuntman, di notte affitta la sua abilità di pilota a chiunque voglia ingaggiarlo, anche per lavori sporchi. La vita dell’anonimo protagonista verrà sconvolta dall’incontro con Irene (Carey Mulligan), sua vicina di casa. Quell’incontro è all’origine di un vortice di efferatezza in cui il protagonista resta imbrigliato.
Il film, vincitore al Festival di Cannes del Premio alla Regia, divide il pubblico, solleva questioni importanti: separa chi intenda il cinema come rappresentazione, rarefatta ed estraniata, del reale da chi voglia che a tutti i costi sullo schermo vengano rappresentate nude e crude le vite degli altri. Chi legge potrà trovarsi dall’una o dall’altra parte, e comunque considerare non sciolto il nodo centrale di un film così assorto, così algido. La sequenza d’esordio, nella sua concitata e cristallina perfezione, misura l’intento del regista: distillare in inquadrature nitide, perfette, gli stilemi del noir e l’estetica degli anni ’80. La sua è un’operazione di sottrazione (di qui il coro di detrattori convinti di ritrovarsi di fronte a sequenze di una pellicola ad alta velocità) piuttosto che cumulativa o propriamente nostalgica. Lo sguardo con cui stringe il cinema del passato è rapido e preciso, né conduce ad un sunto: Driver l’imprendibile di Hill e il Mann di Strade Violente sono modelli ambiti ma anche molto, troppo lontani per il danese. Refn procede elencando con scrupolosa parsimonia i luoghi del cinema classico, ripulendoli delle scorie del proprio tempo e fornendoli di una nuova, moderna dimensione. Il suo sguardo è ammirato e critico allo stesso tempo. Ne risulta un gioiello, corpo filmico perfetto, destinato a segnare il passo e –ne sono convinto- a divenire un must nelle visioni romantiche, rubate alla scuola da numerosi piccoli spettatori del futuro. Lo sguardo tagliente, freddo, quasi amimico di Gosling sostiene le intenzioni del regista, e porta a segno l’estenuante anelito alla rarefazione.
Dopo il rigore di Gosling nel dare corpo all’eroe che va contro il suo cieco destino, la colonna sonora rappresenta un tratto imprescindibile, necessaria a misurare la ferocia glaciale della messa in scena. La musica sopravvive al film, scandisce i ricordi delle inquadrature, inchioda ogni soggettiva alla memoria. La si porta a casa assieme al bisogno di riascoltarla. Sono certo che abbia tratto dal film grande vantaggio solo chi gli si sia abbandonato con semplicità e purezza, e sguardo scevro da pregiudizi. Un piccolo miracolo, avrà pensato.
Drive (USA, 2011)
di Nicolas Winding Refn
con Ryan Gosling, Carey Mulligan
durata 95 min.
nelle sale italiane dal 30 settembre
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