Eco a se stesso: la metamorfosi di un poeta “malato”

“Non tutto possono i Celesti. Prima i mortali raggiungono l’abisso. Si volge così l’eco insieme a loro”.  Solo a partire da una condizione estrema si abbandona il linguaggio ordinario con le sue smanie di potere o esibizioni di salute apparente, a favore dell’eco. Il poeta Friedrich Holderlin, fronteggia l’abisso della condizione psicotica divenendo ciò che aveva profetizzato nei suoi stessi versi: eco di se stesso, suono sciolto dalle contingenze, voce pura, nitido canto. Dal 1802, all’età di 32 anni comincia a soffrire di disturbi mentali; poi nel 1807, per i restanti 36 anni che ha da vivere, si dà la forma della separatezza, propria della schizofrenia, anche in senso spaziale: si isola, si chiude in una piccola stanza di una torre annessa a una casa di Tubinga di proprietà del falegname Ernst Zimmer che lo accoglie e lo accudisce. Per inciso: costui è un atipico, esemplare, falegname capace  di ‘costruire’ relazioni: qualcuno ci ha visto un’esperienza che ha precorso l’attuale inserimento terapeutico di pazienti con disturbi psichici in famiglie diverse dalla propria. Holderlin trascorre la vita in quella stanza della torre a guardare il fiume Neckar e la valle, a comporre versi anche per i visitatori firmandosi Scardanelli, suo doppio. Eco a me stesso (Magi edizioni) è un libro poetico, un’onda sonora che segue le modulazioni di questa voce poetica unica per seguirne il percorso, la metamorfosi schizofrenica in eco. Ne è autore Marco Alessandrini, psichiatra e psicoanalista, che sa i distacchi e le lontananze glaciali dei pazienti schizofrenici perché li ha in cura ogni giorno. Ma il libro in questione non è un resoconto psichiatrico con vago pretesto poetico o un’applicazione psicoanalitica a materiale facilmente infiammabile; non è neanche uno studio d’ambito letterario: ma “semplicemente un libro dedicato a esplorare una particolare forma di poesia, quella forma che è l’emozionalità umana nel suo incarnarsi in modalità vivibili. Modalità nel caso delle psicosi, splendenti pur rimanendo tragiche, e in qualche modo splendenti proprio perché cupe e tragiche”.

Il libro è o vuole essere esso stesso eco, sequenza d’echi capace di cogliere quel che Holderlin ha mostrato di noi: l’essere corpo vivo d’affetti e sensazioni che non sappiamo dire, a cui ci sottraiamo per paura d’impazzire. Sia chiaro Holderlin non è poeta perché schizofrenico, la malattia di per sé non è condizione di creazione (antica diatriba) né di valore aggiunto. È poeta perché quella è la sua fibra d’origine, il suo modo di stare al mondo; solo che, straordinariamente mette la malattia, pazzia o schizofrenia, come si voglia indicarla, al servizio della poesia; usa la pietrificazione, l’isolamento dal mondo e la separatezza per esistere come verso, canto limpido. È poesia che svela, dolore che riluce. Non c’è da aggiungersi ai  suoi tanti patografi e stabilire se la malattia sia stata provocata più dalle vicende familiari (padre e patrigno morti precocemente, madre affettivamente distante e contraria alle sue vocazioni poetiche), dalle circostanze sociali (gli amici Schiller e Schelling non gli diedero mai quella stima che si aspettava), dal dolore della morte della donna amata, dalle sofferenze patite, dall’ideale dell’io sconfitto, dall’essere stato invaso dal dio degli affetti, o semplicemente (parole di Bettina Brentano, sorella dello scrittore Clemens Brentano), da una “eccessiva intimità con gli dei che si trasforma in sventura”. La malattia posta al servizio della poesia significa che le offre in dono un’ampia gamma di opposti (presenza e assenza, essere sé ma essere al tempo stesso non sé, altro, doppio, fantasma, sogno di un sogno; lontano e vicino, distante e presente) fino a sganciarsi da ogni logica discorsiva comune e fare del linguaggio il suono che coglie la vita de materializzata e giungere a una condizione di pace sia pure tragica e fragile. In questo stato estremo si rivela l’inafferabilità che è di ognuno, l’indicibile che ognuno porta dentro, nascosto, dimenticato; l’essere un’ombra in terra. Il poeta malato diventa maschera sì ma di luce. Se la scrittura è già di per sé “un’eco del pensiero, dell’emozione e della voce”,nel caso del poeta svevo lui per primo si fa eco in vita, quasi a dare corpo al mito della Ninfa che, dopo la delusione d’amore per Narciso diventa voce scarnificata, pietrificata nel corpo e nei sentimenti, suono.

Eventi spaventosi hanno spaccato in due la sua vita,  annullato la possibilità di sostenerli da ‘normale’: ma chi di noi sa dire veramente cosa siano le emozioni, quale il loro vero portato, e come annientino l’identità apparente? Nell’esilio del corpo invaso dagli affetti, come disincarnato, nel farsi assente, uguale a zero, morto, vive diventando cassa di risonanza dei suoni dell’indicibile, cantore del mistero di sé e della vita: “Un dio è l’uomo quando sogna, un mendicante quando riflette”. Così ne La morte di Empedocle annuncia: “La mia parola nomina l’ignoto”, perché chi è assente in vita riesce a vedere l’invisibile, accoglie i pensieri onirici, è veggente, si fa ‘segno non significante, indolore’. “Io mi spavento troppo di ciò che è comune e abituale nella vita reale”, aveva già scritto nei diari prima dell’affacciarsi della malattia. La poesia è corpo abitato, potente signora che sola sa esprimere un dolore lucente, la luminosità di una vita più vasta. Per molte persone psicotiche il perdersi non risuona se non nel sintomo e non ha fascinazione alcuna. Il ‘miracolo’ di Holderlin è di aver tramutato la lacerazione patologica in una singolare attuazione che svela il sé più remoto (di cui tutti siamo in balia) fino alla scarnificazione del verso come  un haiku in cui la visione essenziale si inchina alla Natura. Così è ‘La veduta’ sua ultima poesia: “Quando la vita usata dell’uomo va lontana dove  – lontano – splende il tempo delle viti vi è anche il campo sgombro dell’estate e il bosco appare nel suo volto oscuro. Se la Natura integra l’immagine dei tempi, se lei rimane e quelli sono labili, è per sua perfezione. Il cielo alto riluce  per l’uomo come i fiori che incoronano l’albero”.

Titolo: Eco a me stesso. La metamorfosi schizofrenica di Hölderlin in eco
Autore: Marco Alessandrini
Editore: Ma. Gi.
Dati: 2002, 160 pp., 10,00 €

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