(Not) All Blacks

Dietro le cortine delle classifiche mondiali, tanto vecchie e pesanti da suonare particolarmente innovative, si celano nomi che difficilmente riescono a ottenere un’apertura alla scena e che sicuramente meritano più di quello che ricevono. Nomi misconosciuti, genericamente archiviati come undeground, relegati in nazioni dimenticate da dio – da quello della musica senz’altro, Apollo o chi per esso – che scopro solo grazie all’esistenza di internet.

È un dato di fatto, senza rete la mia vita musicale sarebbe stata piuttosto vuota. Avrei consumato spasmodicamente vecchi classici, imparando a riconoscerli uno per uno, il che non sarebbe un male visto che poi faccio figure imbarazzanti non riconoscendo nessuno dei miei artisti preferiti, oppure mi sarei dato a generi commercialmente più reperibili.  A Tim Berners-Lee piacendo, posso invece riempire trillioni di GB di spazio con dischi che non ascolterò mai per intero, o non mi ricorderò di avere ascoltato, ma che al momento mi saranno sembrati tutti ugualmente imprescindibili.

La rosa di candidati per questa recensione era piuttosto ristretta, a meno di non voler pescare ancora una volta nel passato. Venuta a mancare la prima opzione causa attuale irreperibilità dell’oggetto – spero di rifarmi presto – uno dei miei blog del cuore mi è venuto in aiuto con un disco di cui ignoravo l’esistenza. Non poteva essere altrimenti. La Nuova Zelanda non è tra le mete abituali delle mie abluzioni al black-Gange e, fatta eccezione per un’incursione dei Fat Freddy’s Drop nei miei auricolari, non ricordo di avere mai avuto interesse per nulla di Neozelandese che non fossero gli All Blacks. E David Dallas, l’ultimo protegè della Duck Down, che potrebbe riservare soprese ai fan del rap più tradizionale, ma questo è un altro discorso.

Ma dato che la flessibilità è segno di una certa intelligenza – oltre che del costante precariato in cui versa una parte consistente della mia generazione –  questi duemila e rotti caratteri sono tutti per gli Electric Wire Hustle. Nome particolare, strappato a uno dei brani dell’Electric Circus di CommonElectric Wire Hustle Flower, dietro il quale si nasconde un trio in grado di interpretare influenze oltreoceaniche che pescano a piene mani nella black music più alternativa, dallo ZuluBounce di Georgia Anne Muldrow, funk sintetico alla base del suo ultimo Vweto, fino al lavoro dei Soulquarians, collettivo di cui sono parte anche i Roots e alle uscite più sperimentali della Stones Throw Records.

Praticamente inutile citare un pezzo in particolare dall’album, che scorre dalla prima all’ultima traccia in maniera piuttosto omogenea, senza che uno spicchi particolarmente su un altro. A voi decidere se questo sia un bene o meno.