Elio Germano, perso al termine della notte

I reading letterari, sono per forza liturgie masturbatorie? L’oggetto-libro, è destinato comunque a passare in secondo piano, messo in ombra dalla performance dello scrittore-feticcio? A qualcuno importava davvero cosa leggesse Bukowski, e non piuttosto essere testimone del suo ennesimo gesto sopra le righe? Il pubblico dei reading letterari è un gregge di solisti, ciascuno ha la sua idea del libro che ha letto e non vede l’ora di condividerla – perlopiù in via telepatica – con l’autore che quell’idea – scrivendo proprio quel libro – aveva suscitato. Lo spettatore da reading si guarda in sala circospetto, conta gli amici i conoscenti e gli antagonisti, cerca di non badare al brusio degli uditori di passaggio, si sforza di recepire le parole che solo a lui – ci potrebbe scommettere – stanno arrivando con una tale intensità.

Viaggio alla fine della notteA volte succede però che lo scrittore sia già passato a miglior vita, magari da una cinquantina d’anni, e debba quindi cedere a un cantore postumo, si spera a sufficienza intonato, l’ingrato compito di tramandare le sue gesta (col rischio di trasformare la cerimonia, oltretutto, in una mesta commemorazione funebre). Louis-Ferdinand Céline, autore di testi – da Morte a credito alla Trilogia del Nord – che hanno spostato in avanti i limiti fino ad allora noti delle possibilità espressive in letteratura, morì a Meudon, nell’Îl-de-France, il primo luglio del 1961. Elio Germano, miglior attore a Cannes 2010 per il film La nostra vita (regia di Daniele Luchetti), si è preso l’onere di interpretare alcuni brani del Viaggio al termine della notte, col quale Cèline esordì nel 1932. È probabile che nessun’altra opera prima abbia avuto lo stesso impatto nella cultura del XX secolo. D’altra parte, nella seconda metà degli anni trenta, apparvero anche i suoi tre famigerati pamphlet antisemiti, Mea culpa, Bagatelle per un massacro e La scuola dei cadaveri che, insieme alle accuse di collaborazionismo, lo resero un paria per l’intellighenzia francese del dopoguerra e lo costrinsero, con la moglie Lili e il gatto Bébert, all’esilio in Danimarca. Abbiamo dunque un romanziere “maledetto”, un libro di culto e l’attore italiano – a detta della critica – più promettente della sua generazione. Al Teatro Massimo di Cagliari, ultima tappa della tournée invernale, si abbassano le luci e non resta che dare inizio alla rappresentazione.

«Viaggiare è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient’altro che una storia fittizia. Lo dice Littré, lui non si sbaglia mai. E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi. È dall’altra parte della vita». Sono le prime righe del Voyage, Elio Germano accende l’abat-jour sullo stretto ripiano, scosta uno dei fogli e si mette a leggere. È seduto a uno scrittoio che lo contiene a stento, sembra un crostaceo che si dimena ma non può liberarsi della sua conchiglia: il corpo si accartoccia, si contrae, si agita, ma resta comunque inchiodato alla sedia. Il dissidio interiore si riverbera anche nella voce, ora naturale, sussurrata, rotta da pause frequenti, ora filtrata da un microfono, distorta, ribadita dall’effetto-eco. Sospiri, smorfie, sbuffate nervose: il volto è la tela dove si staglia il paesaggio interiore di Bardamu, l’antieroe che si racconta nel Viaggio al termine della notte. «Un uomo serve solo per rivelare la smorfia che si porta dentro, che sale dal suo ventre e che, infine, rivela la sua anima». Lo spettacolo si concentra soprattutto sulla parte iniziale del libro, ambientata fra le trincee delle Fiandre nella prima guerra mondiale, che viene smascherata nel crudele nonsenso proprio di ogni guerra. «Sopra le nostre teste, a due millimetri, a un millimetro forse dalle tempie, venivano a vibrare l’uno dietro l’altro quei lunghi fili d’acciaio intriganti che tracciano i proiettili che cercano di ucciderti, nell’aria calda d’estate. Mai mi ero sentito così inutile come in mezzo a tutte quelle pallottole e le luci di quel sole. Una immensa, universale presa in giro».

Poi Elio Germano spegne l’abat-jour, ritorna nel buio e le luci vanno a illuminare i due musicisti: Theo Teardo e la violoncellista Martina Bertoni. Teardo è il compositore friulano che ha realizzato, tra le altre, la colonna sonora de Il divo di Sorrentino e de La ragazza del lago di Andrea Molaioli. Imbraccia una chitarra elettrica che suona con l’archetto di un violino, mentre continua a regolare la loop station per ricreare il suo tipico sound, che nasce dall’amalgama tra effetti elettronici e strumenti tradizionali. È una musica narrativa, cinematografica, fatta di note stridenti, che spinge il pedale del pathos enfatizzando la drammaticità del testo. Questa forte coloritura è l’unico legame tra i segmenti parlati e quelli strumentali, che continueranno ad alternarsi per i cinquanta minuti di durata dello spettacolo. Ma è proprio questa ricerca ostentata del tragico, questo voler insistere sui tasti più sensibili a provocare, per converso, lo scollamento dalla platea. Una deriva nella quale finisce per scomparire l’opera stessa di Céline, privata del suo incrollabile sottotesto di humour nero. «Al servizio delle Compagnie Pordurière del Piccolo Togo sgobbava dunque insieme a me, come ho detto, negli hangar e sulle piantagioni, un gran numero di negri e di poveri bianchi del mio genere. Gli indigeni, loro, funzionano insomma solo a colpi di bastone, conservano questa dignità, mentre i bianchi, perfezionati dall’educazione pubblica, fanno da soli».

Tornato dall’Africa coloniale, Bardamu si imbarcherà per l’America, prima a New York poi a Detroit, dove sperimenterà le catene di montaggio della Ford, e dove incontrerà la prostituta Molly. «Nei confronti di una delle ragazze del posto, Molly, provai presto uno specialissimo sentimento di fiducia, che negli esseri impauriti occupa il posto dell’amore». Sono squarci lirici che si aprono improvvisi nel fitto grigiore suburbano, sono le memorie smarrite di una vita premoderna. «Abbiamo costeggiato un altro piccolo parco, ultima isola del bosco d’un tempo in cui la notte venivano a rincorrersi tra gli alberi le lunghe brume d’inverno dolci e lente».  Ritroviamo Bardamu nella banlieu parigina a Garenne-Rancy, è diventato medico e presta cure alla povera gente. «Pensandoci adesso, a tutti i matti che ho conosciuto dal vecchio Baryton, non posso fare a meno di dubitare che esistano altre autentiche realizzazioni del nostro io più profondo che non siano la guerra e la malattia, questi due infiniti dell’incubo». Non si può sfuggire alla notte, all’incedere del tempo. «Forse è anche l’età che sopraggiunge, traditora, e ci annuncia il peggio. Non si ha più molta musica in sé per far ballare la vita, ecco. Tutta la gioventù è già andata a morire in capo al mondo nel silenzio della verità. E dove andar fuori, ve lo chiedo, quando uno non ha più dentro una quantità sufficiente di delirio? La verità, è un’agonia che non finisce mai. La verità di questo mondo è la morte. Bisogna scegliere, morire o mentire. Non ho mai potuto uccidermi io». Col Viaggio al termine della notte, Céline inventò «una scrittura viva come la lingua parlata» (Simone de Beauvoir). Il lucido delirio di Céline ci ha mostrato la verità del novecento, un secolo che pare quasi essere la negazione, nei più diversi ambiti – dalla fisica quantistica al socialismo reale – di tutte le certezze sulle quali si era chiuso l’ottocento positivista.

Louis Ferdinand Cèline
Louis Ferdinand Cèline

Di tutto questo si fatica a trovare le tracce nella lettura scenica di Elio Germano. È pur vero che, forse, l’attore romano ha la faccia troppo pulita per essere credibile nei panni, stracciati, di Céline/Bardamu; un po’ come succedeva in Factotum, il film di Bent Hamer del 2005 sulla vita di Bukowski, con un Matt Dillon davvero troppo “carino” per interpretare il vecchio Hank. La regia del giovane Flavio Parenti (classe 1979) è fin troppo schematica nell’alternarsi binario di luci e ombre, di pieni e vuoti. Quando Germano finisce di leggere e torna nel buio l’illuminazione evidenzia i due musicisti, e viceversa. L’azione è assente, la scena è spoglia, non viene fatta alcuna concessione ad elementi scenografici. Ma è sbagliato essere troppo severi: martedì 28 febbraio, per la seconda serata a Cagliari, il Teatro Massimo era quasi colmo di spettatori. Molti di loro erano forse stati attratti dalla presenza del divo emergente; altri ancora – non si può escludere – erano soliti associare – prima della rivisitazione di Germano – il nome Céline alla colonna sonora del Titanic, ed in particolare al tragico amore di Rose e Jack, reso immortale dalle note di My heart will go on, canzone che fruttò un Oscar alla chanteuse canadese Céline Dion. Quando cala il sipario il pubblico in sala concede generosi applausi. A volte si tratta quasi di un riflesso condizionato. Del resto, l’Italia è un paese abituato ad applaudire anche le salme che sfilano ai funerali. Dev’essere davvero un bel sollievo pensare che in quella bara c’è qualcun’altro. Per il momento.

NOTE: Viaggio al termine della notte, spettacolo proposto dalla Fondazione Teatro Piemonte Europa, per la regia di Flavio Parenti, l’interpretazione Elio Germano e le musiche di Theo Teardo, accompagnato al violoncello da Martina Bertoni. Luci di Antonio Merola. Inserito nella Stagione 2012 del Teatro Stabile della Sardegna, in scena al Teatro Massimo di Cagliari il 27 e 28 febbraio.

One thought on “Elio Germano, perso al termine della notte

  • Marzo 18, 2012 alle 9:13 am
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    A me non è piaciuto. Non voglio intestardirmi sulla necessità di parallelismo tra libro e rappresentazione, perché non è quello il punto. E’ proprio quello che ha individuato lei: di Céline lì c’è ben poco. Tutta la costruzione umoristica che resiste anche nei momenti peggiori, la finezza dei paesaggi, delle riflessioni di Bardamu. L’ho trovato molto freddo, e ho continuato ad avere coscienza di essere seduta nella poltroncina di un teatro per tutti i cinquanta minuti. Un bello spettacolo ti proietta sulla scena, e addio poltroncina.

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