Una felicità possibile

La mente di Josef Fritzl aveva ingaggiato col corpo una scommessa impossibile: voleva risalire tutte le età dell’uomo fino al luogo in cui lo scorrere del tempo rallenta e da dove, ammesso che si sopravviva, si assiste alla nascita di ogni cosa. Accanto alla figlia avrebbe contemplato l’origine delle galassie e di ogni pulsante battito di vita, e piú in là ancora si sarebbe spinto, fino a dentro l’occhio di Dio – e come avrebbe potuto impedirlo proprio Lui, che gli occhi non li chiude mai? [Paolo Sortino, Elisabeth]

«Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice». Così Camus racconta la condizione di Sisifo, condannato per l’eternità a trasportare lungo il pendio di una montagna sempre lo stesso pesantissimo masso.

Bisogna immaginare Sisifo felice. È la frase a cui pensa Paolo Sortino quando nel 2008, pochi giorni dopo la liberazione di Elisabeth Fritzl dal bunker in cui suo padre l’aveva condannata a ventiquattro anni di segregazione e violenza, la stampa riporta una sua presunta dichiarazione. Josef Fritzl, avrebbe detto sua figlia Elisabeth, era capace di odio profondo e di amore altrettanto intenso. Parole forse mai pronunciate davvero, comunque subito smentite. Eppure, nell’orrore paralizzante al quale la sua storia ci condanna, una frase come questa è un barlume improvviso, un luccichio di senso cui aggrapparsi prima che svanisca.

«Mentre raccoglievo informazioni sulla vicenda, – racconta l’autore, – la frase di Elisabeth continuava a risuonarmi nella testa, e dava da sé un’immagine a tutto ciò che poteva essere accaduto. Un’immagine dolorosa, certamente, ancora incomprensibile, oscura, persino patetica. Eppure mi sembrava che contenesse un nucleo di felicità possibile, fragile al di là di ogni sensibilità, che nascondesse una serie di possibilità taciute, alle quali forse Elisabeth poteva essersi aggrappata per sopravvivere». E allora, che siano state realmente pronunciate o no, quelle parole diventano una traccia da seguire, un indizio utile a ricostruire un’esistenza altrimenti destinata a sparire, e forse utile anche ad azzardare un tentativo di comprensione di quel dolore. «La sofferenza di lei e dei bambini avuti dal padre, ancora inimmaginabile, si stava trasformando in qualcosa che chiedeva asilo nella mia immaginazione».

Avere il coraggio di accostare la parola felicità a un inferno che sembra non lasciare scampo, ecco l’azione (filosofica, prima che narrativa) che compie Sortino, quella da cui nasce la potenza abbagliante di questo romanzo, il reagente che scatena la detonazione immaginifica. In una delle pagine più dense e suggestive di Elisabeth, Josef lancia una moneta nella piscina che ha costruito nel bunker per i suoi figli-nipoti, e l’acqua, fino ad allora apparsa come un cristallo immobile, si increspa di cerchi che si allargano sulla superficie. La materia era stata resa fluida: grazie a una semplice monetina, il padre era riuscito a commuoverla. Ecco, Sortino fa qualcosa di simile. Azzardando l’ipotesi di una felicità possibile, di una forma di amore all’interno dell’odio, increspa la materia di un orrore che appare monolitico e inscalfibile, e lo commuove. In questa prospettiva, racconta Sortino, «il dolore assumeva sembianze nuove, oppure antiche, vale a dire nuove da sempre». Elisabeth è un romanzo su ciò che da sempre esiste e che da sempre evitiamo di guardare, e l’intensità dei sentimenti, la loro assolutezza, è quella della tragedia o del mito. Dopo la breve premessa iniziale con cui l’autore riassume «il caso Fritzl», la cronaca è espulsa dalle pagine. Da quel momento in poi i fatti, o meglio, ciò che dei fatti trapela attraverso gli articoli sui giornali, su internet, inchieste più o meno realistiche e ricostruzioni, diventa lo scheletro della narrazione, una gabbia flessibile ma perfettamente articolata sulla quale innestare una voce che è insieme carne e nervi di questo romanzo.

Fedele a quel primo barlume che da solo sembra essere in grado di generare il senso, Sortino si ritrova ad avere a che fare con una questione paradossale. Se spesso uno scrittore è costretto a confrontarsi con il problema della plausibilità delle proprie invenzioni nel mondo reale, qui si pone quello opposto: selezionare ciò che, della realtà, è plausibile nel romanzo. E che Sortino è uno scrittore vero lo capiamo anche da questo, dalla sua capacità di rinunciare a tutto ciò che avrebbe deformato la struttura del suo romanzo fino a renderla storpia, di non cedere alle lusinghe di una «storia vera» fitta di dettagli insopportabili eppure ricchi di suggestioni narrative potenzialmente irresistibili. Come la notizia, resa nota durante il processo, che prima di costruire il bunker e rinchiudere Elisabeth, Josef Fritzl avrebbe tenuto prigioniera la propria madre in una soffitta per venticinque anni. Dove non sa e non può sapere, invece, Sortino riempie con l’immaginazione, aprendosi in slanci visionari che paradossalmente non fanno che aumentare la credibilità del romanzo. Non può che essere andata così, ci si dice leggendo.

Ad animare lo scheletro della storia, a riportare in vita ciò che è stato sepolto, c’è la scrittura. La voce narrante scelta da Sortino è una voce che sembra provenire dalla notte dei tempi, anch’essa «antica o nuova da sempre», una voce onnisciente che ricorda a tratti il canto di un coro greco. È una voce che si permette di abitare e scandagliare i pensieri dei personaggi, restituendoceli in una forma tanto densa da apparire essa stessa materia minerale. Nello spazio ridotto del bunker, nel tempo diluito in cui le azioni non sono altro che quelle naturali, «che non si possono abbreviare», resta l’immaginazione e resta il ragionamento, articolato con una lucidità sconcertante: i personaggi di Elisabeth capiscono, comprendono, addirittura imparano. Accumulano in continuazione piccole epifanie, strati progressivi di coscienza. Il loro pensiero non si sostituisce all’azione: è esso stesso azione, nel modo in cui è azione (dolorosa, violenta) la scrittura di Sortino: facendo esistere ciò che non aveva una possibilità di esistenza.

Attraverso questa voce assistiamo alle violenze insopportabili, alla costruzione meditata di una famiglia, assistiamo alla metamorfosi di Elisabeth e al progressivo coincidere della vita con quella vita. Dal centro del bunker, Sortino racconta senza mai emettere giudizi o attribuire colpe, scegliendo di accostarsi ai suoi personaggi, invece di schierarsi. Eppure, nel momento in cui il suo romanzo vuole essere un romanzo sulla felicità, è anche un romanzo profondamente morale: «La morale, – dice Sortino, – non è necessariamente legata alla colpa; certamente è connessa alla responsabilità, ma soprattutto al dovere. Io sento un dovere, nel mestiere che vorrei fare, ed è restare fedele alla complessità, quando la vedo, che spesso è un mistero per definizione, perché insondabile, eppure è lì che ci guarda. Abisso e profondità, che non sono la stessa cosa, agli occhi di uno scrittore si somigliano parecchio, e a me stanno bene così come sono».

Titolo:  Elisabeth
Autore: Paolo Sortino
Editore: Einaudi
Dati: 2011, 216 pp., 19,50 €

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