Corto circuiti: intervista a Giuseppe Veneziano

Giuseppe Veneziano è considerato dalla critica e dalle riviste del settore uno dei massimi esponenti della cultura New Pop made in Italy. Decisamente Pop nello stile e altrettanto attuale nella scelta dei temi delle sue opere, Giuseppe Veneziano cerca di stravolgere realtà e finzione e di creare dei “corto circuiti mentali” come lui stesso li definisce.

Le sue opere si ispirano spesso a quelle dei grandi maestri del passato, dai quali riprende i soggetti reinterpretandoli in maniera dissacrante. Il giovane artista siciliano è stato protagonista di una personale, curata da Vittorio Sgarbi, intitolata Equivoci. La mostra, allestita a Salemi (TP), si è conclusa il 29 novembre scorso e ci ha dato la possibilità di rivolgere qualche domanda all’autore.

D: Allora, iniziamo parlando della sua formazione culturale. Come si è avvicinato al mondo dell’arte?
R: Ci sono arrivato in modo graduale. Quando frequentavo l’Università a Palermo, parallelamente agli studi, collaboravo con il Giornale di Sicilia come vignettista e illustratore. Successivamente mi sono avvicinato al mondo del fumetto lavorando per alcune case editrici. Dopo la laurea ho vissuto un periodo molto travagliato, sovrapponevo, spesso, il lavoro di architetto con quello di fumettista, ma allo stesso tempo cercavo altro. A trent’anni ho fatto una scelta radicale e mi sono trasferito definitivamente a Milano per dedicarmi esclusivamente alla pittura.

D: Ho come l’impressione che in Italia l’arte contemporanea stenti a decollare, affascina le menti di molti ma poi non viene mai compresa fino in fondo. Lei cosa ne pensa?
R: L’arte è un bel rompicapo. L’arte in fondo non chiede di essere compresa, ma di essere apprezzata per il suo potere emozionale, per le sensazioni che trasmette. Ha un forte potere di seduzione ma poi non ci sono i finanziamenti per sostenerla, anche perché, in Italia, s’investe poco e l’artista deve fare (spesso) tutto da sé. Da solo però non può mai avere il potere di raggiungere grandi spazi d’attenzione.

D: Le sue opere sono state quotate dai tre ai venti mila euro e a questo proposito mi viene in mente una celebre frase di Andy Warhol: “un buon affare è la migliore opera d arte”. Condivide il pensiero di Warhol?
R: Non del tutto. Warhol era un bravissimo provocatore. Spesso le sue dichiarazioni erano estreme per evidenziare la questione che voleva dibattere. In quel caso voleva puntualizzare che l’aspetto economico di un’opera d’arte, in una società capitalistica, ha un valore importante. Infatti, anche in quel caso, Warhol ha avuto ragione, basta vedere le elevate quotazioni di alcuni artisti contemporanei.

D: L’elemento religioso è ricorrente nella sua produzione artistica. Cosa vuole esprimere, protesta e dissenso nei confronti della chiesa o “profonda devozione”?
R: Ho sempre ribadito che m’interessa più la storia dell’arte che la religione. E se diamo un’occhiata alla produzione di opere d’arte del passato, quasi il 90% sono di matrice religiosa. Quindi, volente o nolente, ne faccio spesso uso per manipolarle, per appropriarmene. Quello che cerco di fare è recuperare l’interesse per la pittura del passato per vedere quali relazioni possono intercorrere con la realtà di oggi.

D: Una delle sue opere è stata oggetto di dure critiche da parte della chiesa e non solo. La Madonna del Terzo Reich, è stata contestata perché ha velatamente insinuato che il cristianesimo sia l’ennesima dittatura? È questa la giusta interpretazione?
R: Quell’immagine ha un elemento fortemente antinomico. Per quanto Hitler sia la rappresentazione più eclatante del Male, è pur sempre una creatura di Dio. C’è chi ha visto in quel quadro addirittura un messaggio di speranza. Può darsi che sia vero, come può darsi che sia esattamente il contrario. Del resto, come ho dichiarato più volte, io frappongo una sorta di distanza tra le mie convinzioni e il soggetto dell’opera che dipingo.

D: Monsignor Stefano D’atri è stato fin troppo severo con le accuse, asserendo che la Madonna del Terzo Reich è un’offesa per tutti coloro che sono state vittime del nazismo. Lei ha ribattuto affermando che l’arte dev’essere provocatoria. Dunque un’opera per avere successo deve solo provocare?
R: Quella frase è stata estrapolata da una mia intervista e fuori da quel contesto può assumere tanti significati. Quando parlo di provocazioni intendo dire che l’arte deve provocare qualcosa nello spettatore, qualsiasi sentimento, qualsiasi reazione, l’importante è che non passi inosservata. L’arte che non provoca niente non m’interessa.

D: Altra opera decisamente provocatoria è La cosa più bella di Firenze è il McDonald’s.
R: Il titolo di quell’opera è la citazione di una frase di Warhol (*). Come quasi tutte le sue frasi essa è decisamente spiazzante. L’arte spesso fa uso di simboli. In questo caso, partendo dalla frase di Warhol, non ho fatto altro che creare un corto circuito abbastanza azzardato, ma il risultato finale dell’opera ha sorpreso anche me per la sua forza comunicativa.

D: Per finire, anche se avrei ancora molte domande da farle, ricorrenti sono anche i ritratti di personaggi illustri della cronaca, del cinema, della musica, dei fumetti e dei cartoni animati. Qualche anticipazione sulle prossime creazioni?
R: Fin dall’inizio del mio lavoro ho sempre avuto un rapporto costante con la cronaca. Mi piace l’idea di realizzare immagini che focalizzano l’attenzione su alcuni fatti che mi toccano da vicino. Dietro ogni mio ritratto si nasconde una storia, e quello che io voglio fare è raccontare storie contemporanee. Ho in preparazione una mostra personale presso la Galleria Contini di Venezia a Giugno del 2011. Per la prossima esposizione ho pensato di realizzare diverse novità, oltre a molte opere pittoriche, tutte inedite, anche alcune sculture tra cui una in particolare che sarà molto grande e in bronzo policromo, alla quale sto lavorando fin da adesso.

(*) La cosa più bella di Tokio è McDonald’s. La cosa più bella di Stoccolma è McDonald’s. La cosa più bella di Firenze è McDonald’s. Pechino e Mosca non hanno ancora nulla di bello. Andy Wharol