Fenomenologia della corporeità: per farla breve abbiamo un corpo, anzi anche più d’uno, ma Platone a suo tempo ha fatto il guaio

Se volete capirci qualcosa di come stiamo messi ognuno in casa propria, ovvero nel corpo avuto in comodato d’uso in questa vita,  e perché stiamo messi proprio nel modo che è solo nostro,  auspicabile è la lettura di Fenomenologia della corporeità. Autore è Giovanni Martinotti, giovane psichiatra e filosofo, o filosofo “psichiatrizzatosi” strada facendo, secondo un andante allegro che vede filosofia e psichiatria a braccetto nell’esplorazione dell’essere. La prefazione è di Bruno Callieri, il grande maestro della fenomenologia in Italia; la postfazione è dello psichiatra Luigi Janiri.

Il libro, sia subito chiaro, non si legge dal parrucchiere tra un taglio e una piega, non è per lettori di primo pelo, e forse neanche di secondo; richiede competenze che un semplice cultore della materia non possiede. Tuttavia il maestro Manzi a suo tempo insegnò che non è mai troppo tardi e diede speranza di accesso almeno alla periferia del sapere.  A dirla tutta, il testo costringe in principio a un duro “corpo a corpo” con le proprie facoltà intellettive: ehilà ci siete? Se ci siete manifestatevi, cooperate e sintonizzatevi sulla trattazione. Superato l’ostacolo iniziale, accertati e accettati i propri limiti gnoseologici e lessicali, proverete un sottile piacere, poi un robusto godimento estetico-corporeo, soprattutto nella lettura della prima parte. Martinotti ripercorre la storia del corpo in Occidente, le idee che in noi hanno preso corpo.

Credevamo di assomigliare solo e soltanto a noi stessi, d’essere entità scorporate dalla materia di cui è fatta la filosofia, figuriamoci dai filosofi di duemila anni fa, e invece questo libro ci dimostra che il nostro corpo è stato ed è ancora terreno di battaglia: fatto, rifatto, montato e smontato, disputato, soffiato e risoffiato dall’alito non dei maestri di Murano, ma dei maestri del pensiero. In noi, tra un’ernia al disco e una sciatalgia tanto per gradire, alberga Platone, altro che idee in viaggio nello spazio iper uranio, Cartesio e gente che mai abbiamo sentito nominare.

Quanti corpi ci sono in un corpo? Che corpo abitiamo? E come lo abitiamo? Grasso a parte, di quanti strati siamo composti dal soma in poi? Fondamentale varco alla verità del nostro corpo, simbolo in carne ed ossa, è  il riferimento costante che Martinotti fa ai grandi pensatori della fenomenologia e dell’esistenzialismo. Merleau-Ponty ci ha insegnato che il corpo non è solo cosa, oggetto di studio scientifico, è anche la condizione necessaria dell’essere, e che attraverso le percezioni consente l’esperienza, l’apertura al mondo. Ci muoviamo incessantemente tra due poli, essere corpo e avere un corpo.

In Husserl c’è il corpo, cosa tra le cose, il corpo morto, il Korper, e il corpo vivente, il Leib che è intenzionalità, presenza, coscienza, anima e psiche. Quando siamo in salute “le due dimensioni coincidono”. Il corpo vive il mondo e lo crea, è “formatore di mondo” secondo Heidegger, quasi non ci accorgiamo della sua presenza, siamo corpo vivo in noi, fluido e vitale. Emerge, invece,  “dal silenzio della quotidianità”e dell’abitudine in circostanze straordinarie: l’orgasmo, l’ansia, il dolore, il superamento del dolore, secondo la lezione di Jaspers. Ci accorgiamo anche di avere un corpo quando sopraggiungono emergenze improvvise o “fisiologici stati transitori”: “multiformi dolori fisici, malattie, oppure pruriti, trafitture, bruciori, mal di testa, spossatezza”. Altrimenti il corpo è un tutt’uno con l’Io. Nella psicopatologia, invece le due facce della condizione umana convivono male, non riescono a integrarsi armonicamente: nel panico come nell’ipocondria o nelle somatizzazioni il Korper, divenuto “nascondiglio della vita” (Binswanger) erompe improvvisamente “come dimensione estranea all’io, da questa separato, scisso”; nelle sindromi depressive il corpo rappresenta i resti di un mondo in cui si esisteva ma che ora non ci appartiene più ed è solo testimone di un sentire di non sentire; nelle deviazioni del comportamento sessuale trionfa il corpo cosa, il corpo oggetto, separato dal corpo proprio e dal corpo dell’altro; nelle tossicodipendenze le due realtà sono separate e la ricerca della sostanza sottintende il bisogno di ricomporre l’unità perduta; nell’anoressia nervosa il Korper è il nemico da combattere talvolta fino alla morte, ma è anche il caso “della depersonalizzazione dello schizofrenico, nella quale il corpo diventa oggetto alieno, minaccioso, inquietante, totalmente separato da un Io spettatore attento e angosciato”.

La tendenza suicidaria è di chi vuole staccarsi dal corpo vissuto come compagine somatica e basta.  Tanta e tale è la casistica che “ogni patologia mentale non può essere indagata se non a partire da quelle che sono le implicazioni a livello della corporeità, sempre alla luce di quel profondo e insolvibile legame che tiene assieme il corpo e l’anima, la sfera somatica e quella psichica”. Tutta questa complessità in noi, reca tracce di un processo del pensiero che ha forgiato l’Occidente. Qui Martinotti ci racconta del pensiero che si è fatto carne, persino pustola, in corpo. L’uomo pre-platonico è  tutt’uno col proprio corpo, uno yoghin o un sufi ante litteram senza sapere d’esserlo. La filosofia, sull’asse Socrate-Platone ci immette nel pasticciaccio: inventa la logica disgiuntiva e duale, la separazione tra la “follia” del corpo e la purezza immateriale dell’anima. La ragione si impone, spezza il simbolo, scinde psyché e sòma, anima e corpo. Aristotele pensa che le funzioni dell’anima abbiano invece legami di natura fisiologica con il corpo, ma in questo resta in un cantuccio e senza vin santo. Ci pensa il cristianesimo a platonizzarsi più e meglio di Platone stesso e a santificare l’anima: fa fuori il corpo, fonte di guai e peccati da redimere. Sant’Agostino regala al medioevo un supplemento di platonismo e di separazione. Con Cartesio lo stesso dualismo si sposta da un piano mistico-religioso a uno tecnico-scientifico “in cui ancora oggi, senza residui, l’Occidente si riconosce”. L’Io che pensa di Cartesio è “ciò che resta di un’astrazione che prescinde da tutto ciò che è corporeo e mondano”. E così il mondo delle idee di Platone si traduce in categorie a-priori che fondano la scienza medica, la psichiatria, la psicoanalisi, categorie tanto più perniciose, sostiene Martinotti quando il terapeuta si trova a contatto con il vissuto della persona e con la manifestazione fisica e gestuale di una sofferenza. “Pensiamo agli item del Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM)”, annota Martinotti.

Se non fosse che, accanto all’Io sono cartesiano, si fa strada il dubbio angosciante: chi sono io (Ricoeur). Se non fosse che la pattuglia acrobatica dei fenomenologi e degli esistenzialisti arriva a liberarci dall’inganno della separazione. Nietzsche per primo libera  il corpo che proclama la sua forza vitale. La pattuglia acrobatica dei fenomenologi (Jaspers, Husserl, Heidegger, Binswanger, Minkowski) ci svela che l’uomo è sempre corpo nello spazio e nel tempo. Il corpo è “in un cero senso il luogo, a suo modo inconcluso, indefinito, dove accade incessantemente il diventare mondo dell’io e il diventare io del mondo”. In questo travaso continuo, multiforme, sfuggente “ogni psicoterapia autentica non può che mirare primariamente all’appacificamento dell’uomo con sé stesso, ma anche a quello dell’uomo con il mondo”.

La seconda parte del libro, prettamente specialistica, prende in esame le psicopatologie, comprese le dismorfofobie e il fenomeno dell’arto fantasma,  e attraverso  casi clinici racconta il gioco delle interazioni tra Korper e Leib, soma e psiche.

La mente è nel corpo, il corpo qualche volta mente, la mente di più: chi è che non lo fa?  Resta fenomenologicamente indiscutibile l’inscindibile unità mente-corpo (l’antichissima unione dello yoga) e la simbologia che sempre produce il corpo.  Sono simboli corporei il semplice malessere, la malattia conclamata, organica e/o psichica che sia. Il corpo invia continui messaggi in cerca d’integrazione. Il corpo chiede di essere ammesso al banchetto. Finché si sgancia. O resta relegato nelle patrie galere a eseguire gli ordini. Platone a suo tempo ha fatto il grosso guaio. Spesso ce la mettiamo tutta, giusto il tempo di una vita,  a replicare l’antico inganno.

Titolo: Fenomenologia della corporeità. Dalla psicopatologia alla clinica
Autore: Giovanni Martinotti
Editore: Edizioni Univ. Romane
Dati: 2010, 194 pp., 17,50 €

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Se volete capirci qualcosa di come stiamo messi ognuno in casa propria, ovvero nel corpo avuto in comodato d’uso in questa vita, e perché stiamo messi proprio nel modo che è solo nostro, auspicabile è la lettura di “Fenomenologia della corporeità”. Autore è Giovanni Martinotti, giovane psichiatra e filosofo, o filosofo “psichiatrizzatosi” strada facendo, secondo un andante allegro che vede filosofia e psichiatria a braccetto nell’esplorazione dell’essere. La prefazione è di Bruno Callieri, il grande maestro della fenomenologia in Italia; la postfazione è dello psichiatra Luigi Janiri.

Il libro, sia subito chiaro, non si legge dal parrucchiere tra un taglio e una piega, non è per lettori di primo pelo, e forse neanche di secondo; richiede competenze che un semplice cultore della materia non possiede. Tuttavia il maestro Manzi a suo tempo insegnò che non è mai troppo tardi e diede speranza di accesso almeno alla periferia del sapere. A dirla tutta, il testo costringe in principio a un duro “corpo a corpo” con le proprie facoltà intellettive: ehilà ci siete? Se ci siete manifestatevi, cooperate e sintonizzatevi sulla trattazione. Superato l’ostacolo iniziale, accertati e accettati i propri limiti gnoseologici e lessicali, proverete un sottile piacere, poi un robusto godimento estetico-corporeo, soprattutto nella lettura della prima parte. Martinotti ripercorre la storia del corpo in Occidente, le idee che in noi hanno preso corpo. Credevamo di assomigliare solo e soltanto a noi stessi, d’essere entità scorporate dalla materia di cui è fatta la filosofia, figuriamoci dai filosofi di duemila anni fa, e invece questo libro ci dimostra che il nostro corpo è stato ed è ancora terreno di battaglia: fatto, rifatto, montato e smontato, disputato, soffiato e risoffiato dall’alito non dei maestri di Murano, ma dei maestri del pensiero. In noi, tra un’ernia al disco e una sciatalgia tanto per gradire, alberga Platone, altro che idee in viaggio nello spazio iper uranio, Cartesio e gente che mai abbiamo sentito nominare. Quanti corpi ci sono in un corpo? Che corpo abitiamo? E come lo abitiamo? Grasso a parte, di quanti strati siamo composti dal soma in poi? Fondamentale varco alla verità del nostro corpo, simbolo in carne ed ossa, è il riferimento costante che Martinotti fa ai grandi pensatori della fenomenologia e dell’esistenzialismo. Merleau-Ponty ci ha insegnato che il corpo non è solo cosa, oggetto di studio scientifico, è anche la condizione necessaria dell’essere, e che attraverso le percezioni consente l’esperienza, l’apertura al mondo. Ci muoviamo incessantemente tra due poli, essere corpo e avere un corpo. In Husserl c’è il corpo, cosa tra le cose, il corpo morto, il Korper, e il corpo vivente, il Leib che è intenzionalità, presenza, coscienza, anima e psiche. Quando siamo in salute “le due dimensioni coincidono”. Il corpo vive il mondo e lo crea, è “formatore di mondo” secondo Heidegger, quasi non ci accorgiamo della sua presenza, siamo corpo vivo in noi, fluido e vitale. Emerge, invece, “dal silenzio della quotidianità”e dell’abitudine in circostanze straordinarie: l’orgasmo, l’ansia, il dolore, il superamento del dolore, secondo la lezione di Jaspers. Ci accorgiamo anche di avere un corpo quando sopraggiungono emergenze improvvise o “fisiologici stati transitori”: “multiformi dolori fisici, malattie, oppure pruriti, trafitture, bruciori, mal di testa, spossatezza”. Altrimenti il corpo è un tutt’uno con l’Io. Nella psicopatologia, invece le due facce della condizione umana convivono male, non riescono a integrarsi armonicamente: nel panico come nell’ipocondria o nelle somatizzazioni il Korper, divenuto “nascondiglio della vita” (Binswanger) erompe improvvisamente “come dimensione estranea all’io, da questa separato, scisso”; nelle sindromi depressive il corpo rappresenta i resti di un mondo in cui si esisteva ma che ora non ci appartiene più ed è solo testimone di un sentire di non sentire; nelle deviazioni del comportamento sessuale trionfa il corpo cosa, il corpo oggetto, separato dal corpo proprio e dal corpo dell’altro; nelle tossicodipendenze le due realtà sono separate e la ricerca della sostanza sottintende il bisogno di ricomporre l’unità perduta; nell’anoressia nervosa il Korper è il nemico da combattere talvolta fino alla morte, ma è anche il caso “della depersonalizzazione dello schizofrenico, nella quale il corpo diventa oggetto alieno, minaccioso, inquietante, totalmente separato da un Io spettatore attento e angosciato”. La tendenza suicidaria è di chi vuole staccarsi dal corpo vissuto come compagine somatica e basta. Tanta e tale è la casistica che “ogni patologia mentale non può essere indagata se non a partire da quelle che sono le implicazioni a livello della corporeità, sempre alla luce di quel profondo e insolvibile legame che tiene assieme il corpo e l’anima, la sfera somatica e quella psichica”. Tutta questa complessità in noi, reca tracce di un processo del pensiero che ha forgiato l’Occidente. Qui Martinotti ci racconta del pensiero che si è fatto carne, persino pustola, in corpo. L’uomo pre-platonico è tutt’uno col proprio corpo, uno yoghin o un sufi ante litteram senza sapere d’esserlo. La filosofia, sull’asse Socrate-Platone ci immette nel pasticciaccio: inventa la logica disgiuntiva e duale, la separazione tra la “follia” del corpo e la purezza immateriale dell’anima. La ragione si impone, spezza il simbolo, scinde psyché e sòma, anima e corpo. Aristotele pensa che le funzioni dell’anima abbiano invece legami di natura fisiologica con il corpo, ma in questo resta in un cantuccio e senza vin santo. Ci pensa il cristianesimo a platonizzarsi più e meglio di Platone stesso e a santificare l’anima: fa fuori il corpo, fonte di guai e peccati da redimere. Sant’Agostino regala al medioevo un supplemento di platonismo e di separazione. Con Cartesio lo stesso dualismo si sposta da un piano mistico-religioso a uno tecnico-scientifico “in cui ancora oggi, senza residui, l’Occidente si riconosce”. L’Io che pensa di Cartesio è “ciò che resta di un’astrazione che prescinde da tutto ciò che è corporeo e mondano”. E così il mondo delle idee di Platone si traduce in categorie a-priori che fondano la scienza medica, la psichiatria, la psicoanalisi, categorie tanto più perniciose, sostiene Martinotti quando il terapeuta si trova a contatto con il vissuto della persona e con la manifestazione fisica e gestuale di una sofferenza. “Pensiamo agli item del Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM)”, annota Martinotti.

Se non fosse che, accanto all’Io sono cartesiano, si fa strada il dubbio angosciante: chi sono io (Ricoeur). Se non fosse che la pattuglia acrobatica dei fenomenologi e degli esistenzialisti arriva a liberarci dall’inganno della separazione. Nietzsche per primo libera il corpo che proclama la sua forza vitale. La pattuglia acrobatica dei fenomenologi (Jaspers, Husserl, Heidegger, Binswanger, Minkowski) ci svela che l’uomo è sempre corpo nello spazio e nel tempo. Il corpo è “in un cero senso il luogo, a suo modo inconcluso, indefinito, dove accade incessantemente il diventare mondo dell’io e il diventare io del mondo”. In questo travaso continuo, multiforme, sfuggente “ogni psicoterapia autentica non può che mirare primariamente all’appacificamento dell’uomo con sé stesso, ma anche a quello dell’uomo con il mondo”.

La seconda parte del libro, prettamente specialistica, prende in esame le psicopatologie, comprese le dismorfofobie e il fenomeno dell’arto fantasma, e attraverso casi clinici racconta il gioco delle interazioni tra Korper e Leib, soma e psiche.

La mente è nel corpo, il corpo qualche volta mente, la mente di più: chi è che non lo fa? Resta fenomenologicamente indiscutibile l’inscindibile unità mente-corpo (l’antichissima unione dello yoga) e la simbologia che sempre produce il corpo. Sono simboli corporei il semplice malessere, la malattia conclamata, organica e/o psichica che sia. Il corpo invia continui messaggi in cerca d’integrazione. Il corpo chiede di essere ammesso al banchetto. Finché si sgancia. O resta relegato nelle patrie galere a eseguire gli ordini. Platone a suo tempo ha fatto il grosso guaio. Spesso ce la mettiamo tutta, giusto il tempo di una vita, a replicare l’antico inganno.