La bufera c’è, si sente, si vede, si respira, si tocca…

La bufera è tra noi. Basta con l’ottimismo finto, governativo. Come la accogliamo? O la sopportiamo? O non soccombiamo? La questione è anche psichica. Essere tutti di un pezzo, a questo punto della nostra storia mortale, qualunque sia l’arte combinatoria che ci ha portati fin qui e ci ha dato un andamento lineare all’apparenza, è strategia mal-sana. E non è neanche utile.
Il sociologo Zigman Bauman da anni va insistentemente predicando che siamo in società liquide, ormai dovremmo conoscere la lezione a menadito, il che non significa che dobbiamo girare armati di taniche per raccogliere umori e fluidi non meglio identificati di un’incontinenza di massa. Casomai c’era da abbandonare il personaggio granitico già da un pezzo e mandare alla malora maschere di altra epoca. Ebbene, se la società è liquida, è ovvio che l’identità a sua volta non può e non deve essere solida, che sarebbe una minaccia alla sopravvivenza in un mondo in continuo divenire, ma migrante, mutante, fluttuante, (quante ante; aperte sì, come l’identità), “palinsestale”, come un palinsesto televisivo, che sia però vivace, plasmabile, non rigido. In sintesi: adattamento creativo. Questo è uno dei concetti cardine emersi al primo Meeting nazionale della Gestalt psicosociale, che si è svolto a Roma per tre giorni, dal titolo semanticamente inchiodante: “Dalla società opulenta a un mondo ecosostenibile: il difficile percorso della società di oggi. Strumenti per il buon vivere, la salute, il buon essere”. Una vertigine, ma che importa? Presenti al convegno, come si capirà, gestaltiani praticanti, che non sono marziani, ma medici, psichiatri, psicoterapeuti che seguono il metodo della Gestalt, fondato dal tedesco Fritz Perls negli anni ’50 del secolo scorso. Scopo dela terapia della Gestalt è di far scoprire a ognuno la sua propria forma e per far questo sintetizza e ingloba molte correnti di pensiero: psicoanalisi classica, terapie psico-corporee di matrice reichiana, psicodramma, gruppi di incontro, ma assimila anche esistenzialismo, fenomenologia e può integrarsi con filosofie orientali.

La Gestalt ora si cimenta con la crisi, ovvero rottura della continuità, interruzione di un ordine e di un criterio sociale, economico, produttivo, culturale, etico, e così via. Ma cosa è questa crisi? (Cantava Petrolini). Maria Menditto, presidente della Fondazione italiana Gestalt, la intende come un’occasione di risveglio delle coscienze verso un sentire comune, nuovi stili di vita e di comportamento, una nuova modalità di stare nelle cose, un’opportunità. La crisi ha colto tutti impreparati, non solo gli economisti, anche gli specialisti della psiche, costretti a inventarsi o reinventarsi categorie patologiche e protocolli terapeutici. “L’incertezza genera ansia e risentimento: si tratta di tonalità affettive che colorano il senso della vita”. E uno. Paradossi e controsensi. “Ciascuno si sente sempre più autosufficiente, ma nello stesso tempo dipende da servizi e apparati tecnologici che non controlla. A tutto questo corrisponde un’instabilità e incertezza di rapporti, se non una carestia di relazioni che permeano la vita affettiva delle persone”. E due. Allora confessiamo, si sta una schifezza per tante di quelle ragioni intrapsichiche e sociopolitiche, è la crisi della crisi della crisi che ci travolge, e anche la patologia non è più la stessa. Quali sono i nostri “nuovi” modi di stare male, passarcela male, manifestare disagio interiore e relazionale? “Negli studi psicologici, nei luoghi di lavoro, nelle famiglie si respira sempre più una patologia sotterranea, diffusa, impalpabile, difficile da afferrare, e proprio per questo quotidiana, quindi data per scontata”, dice Maria Menditto. E tre. Facciamo finta che tutto va bene, per sopravvivere. Ma quanto può durare?

La Gestalt psicosociale poiché non considera la vita mentale in un’ottica marcatamente individualistica, come da tradizione psicoanalitica classica, indica una svolta nella “svolta relazionale”: la vita mentale è frutto dell’interazione con l’ambiente, il benessere individuale richiede relazioni di reciprocità, anche con la polis, (termine sacro), che va dai rapporti col vicino di casa al pianeta intero, un senso di connessione agli altri, ben diverso dalle connessioni di propaganda politica o da quelle fatue promesse dalle pubblicità. Sforzo del terapeuta, come di un guaritore post-post-moderno, deve essere di favorire il risveglio dell’individuo, combattendo modelli culturali, stili di vita diffusi, l’azione invasiva e distruttiva di mezzi d’informazione che incitano a non pensare, non essere, non dire, non fare, persino non sentirsi in crisi.

Il potere esiste per fare paura, per stuzzicare e risvegliare paura antiche, alimentare e stimolarne di nuove, fino alla disintegrazione dell’essere o alla nullità. “Per svolgere il nostro compito, oggi, dobbiamo imparare una capacità indispensabile nella postmodernità: incidere nella polis”, dice Menditto,convinta che il tempo si è fatto breve e l’auto realizzazione passa per la realizzazione dell’altro e della comunità. E in questo tempo breve occorre farsi pionieri, sparpagliare il verbo in forma aperta e interdisciplinare perché la sofferenza umana in questa fase sta rivoltando come calzini bucati tutti i saperi: psicologia, sociologia, economia, giurisprudenza, medicine, neuroscienza, antropologia, obbligandoli a dialogare e a uscire da formule generiche.

“La visione della nuova persona vede il passaggio dall’homo oeconomicus all’homo reciprocans”. Questo il tema centrale del convegno che ha unito esperti di provenienza diversa. Maurizio Pugno, preside della facoltà di Economia e commercio a Cassino: “L’economia della felicità richiede la reciprocità. Se pensiamo che come economisti non siamo riusciti a prevedere la crisi, è perché agivamo in base al principio della razionalità di cui occorre sbarazzarsi a favore del principio dell’auto interesse, non rivolto a interessi materiali, ma all’accumulazione di conoscenze correlata a capacità di reciprocare”. Francesco Menditto, magistrato, si occupa della confisca dei beni delle mafie in Campania: “Lavoriamo per il bene comune, per la polis. Il momento attuale è non dico di oscurantismo, ma di grande difficoltà. Come essere ottimisti? L’unica cosa da fare è metterci insieme, fare rete, non rete telematica ma materiale”. Tornare ad essere sociali. Lo stato di allerta deve pur far scattare una reazione collettiva.
Maria Teresa Giannelli, docente di Psicologia all’Università La Sapienza: “La sfida di oggi è data dai cambiamenti che dobbiamo fare tutti, anche soggettivamente. Per poter fare un cambiamento, dobbiamo prendere atto di un problema, questo il postulato principale”. Onesta disamina di sé: “Abbiamo necessità di guardare in faccia la realtà, il modo in cui viviamo oggi le relazioni. Il modello di vita consumistico ha cambiato il modo in cui ci relazioniamo con gli oggetti e le persone. Lo stile relazionale utilitaristico verso gli oggetti, è stato trasposto nelle relazioni umane”. L’altro ci interessa se c’è utile, se ci porta un qualche vantaggio. Ma tu che mi dai? Inquinamento mentale dalle pratiche di governo ai rapporti col partner.

Il profitto individuale in testa, la tangente applicata oltre che alle opere pubbliche anche alla sfera del sentire più profondo. “L’altro è reificato – dice Giannelli – privato del sentire, di emozioni, sentimenti, sensibilità. In modo opportunistico, lo rendo strumento e cancello la sua umanità. Per fare questo devo anestetizzare le mie emozioni, mettere il silenziatore. Dall’anestesia emotiva si scivola all’afasia emotiva, all’incapacità di esprimere ciò che sentiamo. Il paradosso è che mentre facciamo questa operazione verso l’altro, la stiamo facendo anche verso noi stessi, disumanizzandoci. La salute e il benessere si nutrono di relazioni autentiche”. Si scopre l’acqua calda, ma quando ci si è ibernati è cosa non da poco.

C’è chi come don Tonino Palmese, componente dell’associazione Libera, associazione che lotta contro la mafia, uno che vede le cose da Poggioreale, periferia di Napoli e carcere, che più che un sacerdote sembra un combattente in una terra di nessuno, cita il suo amico Massimo Troisi e il film “Il postino”: “É importante trovare il poeta nella propria vita. Abbiamo bisogno tutti di incontrare il poeta che ci permetta di vedere il cielo sopra di noi, ma non per motivi metafisici né confessionali”. Per don Tonino il risvolto sociale dell’empatia, è la telepatia: sì va benissimo il detto bussate e vi sarà aperto, ma intanto è importante tenerla aperta, quella porta. Quindi il senso dell’incontro visto da uno che organizza in carcere carovane antimafia: “Si dice incontrarsi prima che sia troppo tardi, non è mai troppo tardi per incontrarsi, neanche in carcere”.

Luca Telese, giornalista, (firma de Il fatto quotidiano) lo dice: “Questo è il tempo in cui l’informazione soccombe alla narrazione”. Ed è una narrazione mai vista prima: “Nel mondo taylorista, i media avevano un potere enorme. Con l’arrivo di Google ognuno può diventare media-editore-produttore. É la prima volta che accade, e finché è così, può portare a un nuova finestra di democrazia”. Telese fa l’esempio de “Il fatto quotidiano” su cui scrive che “è nato su Internet, poi ha conquistato 100 mila copie su carta”. Poi avviene, sta avvenendo la narrazione spontanea, l’epopea dei lavoratori, dei licenziati, dei cassaintegrati che la crisi la mettono in scena: “Questo è l’anno in cui tutta l’Italia è salita sui tetti. A ciò non è seguita nessuna risposta della politica che non riesce ad avere una propria di narrazione. Il caso degli operai dell’Asinara, una collisione di simboli, un corto circuito fantastico, i cassaintegrati che fanno un reality che demolisce i reality, nel carcere dove è stato Totò Reina” Insomma “la narrazione è la leva di Archimede che può cambiare gli equilibri in gioco”. Narrate uomini la vostra storia, trovate la vostra narrazione, è un’indicazione: “La comunicazione ha esasperato e gonfiato le attese – dice Mario Morcellini, preside della facoltà di Scienze della Comunicazione de La Sapienza – l’unico modo di non essere più spettatori della comunicazione e diventare attori”.

Considerazioni più o meno in zona “gestaltica”: la terapia è narrazione del romanzo della propria vita. La vita è di per sé crisi, continua rottura di un ordine precostituito, di un ordine illusorio. Diventiamo palinsesto di noi stessi, senza aspettare il suggerimento di Nicoletta Orsomando. Non c’è una signorina buonasera a darci suggerimenti, ci sono invece signori che agiscono indisturbati in nome della “privacy del potere”, come scritto un paio di giorni fa da Roberto Saviano su “La Repubblica”. Arginiamo la bufera diventando protagonisti del nostro destino ci dicono i gestaltiani, senza fuggire dall’ignoto prima di averlo conosciuto e concedendoci il lusso in questo impatto conoscitivo, di essere “indefiniti, imperfetti, dubbiosi e caotici” (in verità lo diceva Maslow in Verso una psicologia dell’essere nel 1971, Edizioni Astrolabio). Diventiamo assertivi. Tutto ciò non vale da ammortizzatore sociale. Né può fare da terapia consolatoria a una situazione insostenibile. Per renderla ecosostenibile la realtà, dovremmo riappropriarci della polis. Per riappropriarci della polis dovremmo decontaminarci. Se il catrame ci ha imbrattato è perché, nel gioco delle parti, ci è stato bene che accadesse.