Potere alle parole per riscattarsi da un presente tossico

“Le nostre parole sono spesso prive di significato. Ciò accade perché le abbiamo consumate, estenuate, svuotate con un uso eccessivo e soprattutto inconsapevole. Le abbiamo rese bozzoli vuoti. Per raccontare dobbiamo rigenerare le nostre parole. Dobbiamo restituire loro senso, consistenza, colore, suono, odore. E per fare questo dobbiamo farle a pezzi e poi ricostruirle.

Nei nostri seminari chiamiamo ‘manomissione’ questa operazione di rottura e ricostruzione. La parola manomissione ha due significati, in apparenza molto diversi. Nel primo significato essa è sinonimo di alterazione, violazione, danneggiamento. Nel secondo, che discende direttamente dall’antico diritto romano (manomissione era la cerimonia con cui uno schiavo veniva liberato) essa è sinonimo di liberazione, riscatto, emancipazione. La manomissione delle parole include entrambi questi significati. Noi facciamo a pezzi le parole (le manomettiamo, nel senso di alterarle, violarle) e poi le rimontiamo (le manomettiamo nel senso di liberarle dai vincoli delle convenzioni verbali e dei non significati)”. Il protagonista del romanzo Ragionevoli dubbi di Gianrico Carofiglio, l’ormai celebre avvocato Guido Guerrieri, va in libreria e sceglie un volume dal titolo “La manomissione delle parole. Appunti per un seminario sulla scrittura”. Lo sfoglia, legge alcune frasi, si sofferma sul passo appena citato. I lettori veri hanno cominciato a chiedere a Carofiglio con sempre maggiore insistenza dove trovare questo libro e come poter partecipare al seminario. Libro e seminario però non esistevano se non nell’invenzione.

Almeno fino a che, potenza della letteratura, la richiesta dei lettori, ha convinto  Carofiglio  a scriverlo davvero un testo dedicato alle parole, strumento per cambiare il mondo, di più: atti che creano la realtà (chiedere conferma al filosofo Ludwig Wittgenstein e  allo scrittore Paul Auster). E si intitola proprio La manomissione delle parole (pubblicato da Rizzoli nel 2010). Cosa contiene? L’autore lo definisce  per ciò che non è: non è una lezione, un manifesto politico, una riflessione filosofica.  È un saggio sulle parole,  un gioco di sconfinamenti “personalissimo e arbitrario”, “un’ antologia anarchica”, una ricerca di senso dettata da urgenti ragioni politiche, letterarie, etiche.

Inevitabile che il magistrato scrittore, parlamentare dal 2008, faccia una riflessione sul potere della lingua ma anche sulle lingue del potere e della sopraffazione. Inevitabile un discorso che dal generale (l’uso della lingua nei sistemi totalitari) arrivi al particolare e al caso italiano con riferimenti espliciti al governo Berlusconi. Questo gioco anarchico che si nutre delle parole e delle pagine altrui con salti vertiginosi (da Hanna Arendt a don Milani, da Aristotele a Bob Dylan, da Goethe a Gramsci, da Camus a Italo Calvino e altri ancora) sembra stare lì a dirci una cosa antica e risaputa eppure sempre dimenticata: un sistema di potere totalitario non danneggia un paese solo dal punto di vista materiale, attraverso l’uso personalistico delle istituzioni; con scelte, o non scelte, politiche,  economico-finanziarie, norme e leggi ad personam. Un sistema di potere antidemocratico corrode il tessuto spirituale e culturale di una comunità attraverso “un processo patologico di vera e propria conversione del linguaggio all’ideologia dominante”.  È risaputo tutto ciò, ma l’assuefazione ci riduce spesso alla condizione di dormienti. Il potere ruba le parole, le neutralizza, le volgarizza, le priva di senso o le rende tossiche. Dal regime di Oceania del romanzo citato 1984 di George Orwell, dove la neolingua riducendo al minimo le parole diminuisce le possibilità di pensiero, alle lingue totalitarie del nazismo e del fascismo il passaggio è obbligato.

L’autore cita il filologo Victor Klemperer che analizzò la lingua del Terzo Reich notando che si reggeva sulle frase fatte, proprio quelle che si impadroniscono di noi, e sulla loro ripetizione, e che “lo stile obbligatorio per tutti era quello dell’imbonitore”. Carofiglio riscontra affinità con la nostra storia nazionale: da 20 anni il lessico politico italiano “è stato caratterizzato dalla ripetizione di slogan volgari ma virali e di metafore grossolane: ‘la lega ce l’ha duro’; ‘la discesa in campo’, ‘il presidente eletto dal popolo’; ‘i magistrati comunisti’; ‘lasciatelo lavorare’ e infine quello più triviale e pericoloso nella sua apparente, innocua banalità: ‘la politica del fare’”.  Tra le parole più usurpate e danneggiate dal governo Berlusconi ci sono libertà, liberismo, ma anche una parola delicatissima e privata: amore. Ricordiamo lo slogan e titolo di un volume “L’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio” fatto circolare dopo l’aggressione subita dal premier in piazza Duomo a Milano nel 2009. Questo è un lessico che riduce i cittadini alla stregua di telespettatori inebetiti, li infantilizza  agendo sulle emozioni elementari. Segue un dizionario personale di 5 parole calpestate e da manomettere per liberare un senso nuovo (vergogna, giustizia, ribellione, bellezza, scelta). Infine c’è uno scritto sulle parole del diritto. I continui riferimenti a recenti fatti politici e governativi non sono puramente casuali, ma voluti.  Italo Calvino aveva già scorto la trasformazione dell’italiano in antilingua inesistente. Siamo giunti ora all’antilingua che esiste, si sedimenta,  è fraudolenta e tossica come certe sostanze inquinanti che non si sa quanto tempo occorrerà perché decadano. Ci sono antidoti,  parole- materia (citando Simenon) da recuperare e usare. Una tra tutte, il no della ribellione. La  parola “più urgente ed essenziale” per il rimpianto Josè Saramago.

Titolo: La manomissione delle parole
Autore: Gianrico Carofiglio
Editore: Rizzoli
Dati: 2010, 188 pp., 13.00 €

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