Out Of Time 2012 – Cambiare restando uguali

Ci sono band che resistono agli urti del tempo e alle folate delle mode. Ci sono band che a 2012 ormai inoltrato se ne infischiano dei canoni del momento, di quale suono o melodia tiri di più, di come produrre e trattare una canzone. Ci sono band che vanno per la loro strada cercando di catturare, più che lo spirito del tempo, la propria identità e andando avanti così, disco dopo disco, di definirla, smussarla, limarla, alla ricerca di sonorità che sentono loro, senza assecondare i gusti di un pubblico sempre più variegato. Ci sono band incorruttibili alla promessa sonora che si sono cucite addosso e che continuano a scrivere, comporre, cantare come fosse la prima volta senza rinunciare però ad evolversi. Ci sono band insomma che possiedono una voce e che questa voce ce la vogliono raccontare. Proprio come fanno Giardini di Mirò, Tindersticks e Lambchop.

La band di Cavriago, ormai di culto nel panorama italiano, dopo cinque anni ritorna  a un disco fatto di canzoni (Il fuoco uscito nel 2009 era una sonorizzazione del film omonimo del 1915 di Giovanni Pastrone) e lo fa nel consueto stile a cui siamo abituati. L’impianto sonoro è quello solito, lo si sente subito, la struttura dietro le canzoni è fatta di lunghe suite strumentali, riverberi, tappeti sonori, fiati e stringhe, e che affonda le radici nel post-rock. Ma ormai da un po’ di album la band si è avventurata per altre strade, cercando di contenere la bulimia strumentale e incastrarla e ordinarla in una forma canzone più prettamente classica. E arriviamo a marzo 2012, dunque, con questo Good Luck (Santeria, 2012). La prima canzone, Memories, è come una dichiarazione poetica, sembra che stia lì a dire attenzione, siamo sempre noi ma allo stesso tempo no. L’attacco vocale di Corrado Nuccini ci accompagna sulle sponde di un sogwriting cupo e claustrofobico che appartiene più alla tradizione americana che non a quella europea. L’impressione persiste con la bellissima Spurious Love, canzone a due tempi, la cui coda rimane in testa come un mantra. La composizione si tinge di altre tonalità in Ride: alla voce passa Jukka Reverberi e le suggestioni cambiano verso di una melodia più power-pop che sfocia in un ritornello, mi si passi l’accostamento, à la Pavement. E va  tutto avanti così questo disco, con la differenza di composizione che si fa più evidente con l’alternarsi delle due voci (se si esclude la bucolica There Is A Place cantata da Sara Lov e la strumentale Good Luck), più chiusa e baritonale una (e quindi la multiforme Rome e Flat Heart Society), più aperta a fughe armoniche l’altra (il singolo Time On Time per esempio). Il tutto senza compromettere l’unità di fondo garantita dal suono della band. Sono sempre loro ma allo stesso tempo non lo sono più. Good Luck.

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I Tindersticks sembrano essere risaliti in carreggiata con forza e convinzione dopo la reunion del 2008. E questo The Something Rain (City Slang, 2012) è forse la loro prova più convincente da anni a questa parte. Apostoli di un folk pop crepuscolare, onirico e sofisticato, perfettamente interpretato dalla voce cavernosa e solenne  di Stuart Staples, frontman della band di Nottingham, i Tindersticks abbracciano, se possibile, sonorità ancor più scure alleggerendole con una produzione ricca, piena di fiati e con qualche incursione in territorio elettronico. Ne viene fuori un album estremamente elegante, vario e di difficile definizione ma comunque vivo e pulsante, pronto a farti compagnia in certe notti alcoliche altrimenti troppo solitarie (mi si conceda la suggestione). Il disco si apre con i nove minuti di Chocolate, la spoken song che si aggancia idealmente a My Sister, pezzo contenuto in Tinderstiks II (This Way Up, 1995). Dopodiché Staples inizia a cantare sul serio, ed è in una forma smagliante: in Show Me Everything viene introdotto da un coro femminile, quasi gospel, per poi prendere le redini del disco e trasportare l’ascoltatore fino alla fine di un viaggio lungo e buio, costellato da gemme come Slippin’ Shoes, Medicine e Frozen. Ma è tutto l’insieme, da cima a fondo, che è capace di portarti  nella dimensione Tindersticks, un luogo ancora molto lontano dalla banalità, dalla maniera e dalla noia.

Dei Lambchop, invece, avevo dimenticato la dolcezza, la capacità di farti rasserenare e sorridere delle ansie di tutti i giorni. Assenti dalla scena musicale dal 2008 tornano quest’anno con l’ottimo Mr M (Merge, 2012). L’attacco è fuorviante: If Not I’ll Just Die è uno swing un po’ affettato e fuori fuoco rispetto al folk su cui si regge il resto del disco. Con 2B2 entriamo decisi nell’universo Lambchop, la voce di Kurt Wagner sa tratteggiare paesaggi urbani che si tingono di atmosfere bucoliche. Una certa grazia sembra scendere sulle cose, la melodia delle canzoni, nei ricchi arrangiamenti, riporta un certo equilibrio sugli affanni quotidiani, e una pace zen, da infuocato tramonto estivo, cattura l’ascoltatore (in questo caso me, giusto per non generalizzare troppo). Gone Tomorrow, il singolo, ne è un esempio perfetto, ma ancora di più Mr. Met con le sue infiorescenze di archi che sbocciano inaspettate  come le sensazioni che provocano.  Ma anche il resto del disco non è da meno: la strumentale Gar, Nice Without Mercy, Buttons fino ad arrivare al toccante lirismo di Kind Of. Betty’s Overture, anch’essa strumentale, e il folk pizzicato di Never My Love chiudono un disco senza sbavature, costruito fin nei minimi dettagli, ma con l’indiscutibile forza di riuscire a schiarire anche dopo i giorni di nera tempesta. Un antidoto musicale che resetta i dispiaceri facendoti partire ogni volta da zero. E solo iddio sa quanto servano canzoni così oggigiorno.