Giorgio Celli, il cantore umoristico delle magie del cosmo

“La natura ha sempre ragione. Se un pesce potesse parlare preferirebbe tacere”. Un motto di spirito grande quanto una casa. Una casa magica. “La spiegazione scientifica di un fenomeno è solo la traduzione semanticamente sofisticata della spiegazione magica”. A scrutare la realtà con fervore di occhi ‘indisciplinati’ (ovvero occhi che non si chiudono al sapere esclusivo di una disciplina), tutto è magia e la natura forse parla il linguaggio dei calembours. Che straripante ricchezza di spunti viene, anche ad aprire una pagina a caso, dagli scritti di Giorgio Celli, poiché era uno scienziato magico ma anche un mago scientista, sempre dedito a rincorrere la voce segreta delle cose, rintracciare l’armonia delle sfere  di ascendenza pitagorica magari nei comportamenti degli insetti; scovare l’anima mundi degli gnostici, caduta e intrappolata nella materia, proprio tra le fusa dei gatti piuttosto che nella vita sociale dei primati; trovare corrispondenze e affinità di cui l’universo trabocca comparando magari una capsula di papavero, ‘utensile naturale’, a una saliera, utensile di costruzione umana.  Se ne è andato Giorgio Celli, e forse a quest’ora può darsi che sia in un oltretomba egizio circondato dai gatti che aveva considerato i suoi maestri silenziosi e tanto gli erano cari, o dalle api, “le più formidabili commesse viaggiatrici d’amore dei fiori”, che pure amava, o da insetti e zanzare anch’essi studiati con passione o chissà da quante altre specie. Più che in un paradiso forse sta in una specie di arca di Noè.

Etologo, entomologo, biologo ma anche ecologo, e insieme letterato, e ancora poeta e saggista, attore e autore teatrale, politico (fu parlamentare europeo per i Verdi), grande divulgatore, personalità proteiforme, d’ingegno vivacissimo e arguto, Celli è figura d’umanista integrale che racchiude in se saperi non scollegati, lontano dall’asettico professionista della scienza confinato nel suo campo specialistico.  Univa infatti una versatilità non comune a doti d’osservazione ed esplorazione della natura, il rigore abbinato a una sempre presente sensibilità estetica e a un’attitudine di fondo estatica, di chi è capace di accostarsi con stupore e meraviglia ai fenomeni naturali e culturali, alla storia della botanica come alla storia umana e a fine giornata si emoziona guardando le stelle. Disponeva di così tanti talenti che avrebbe potuto correre il rischio di disperderli; invece riuscì a incanalarli in forme originali e con una comunicazione fantasiosa ma insieme precisa ed efficace. Della sua produzione abbondantissima e multiforme, ci piace ricordare un volume del 1982 intitolato ‘La scienza del comico’ perché rende bene l’idea di questa personalità eclettica e stravagante, sempre pronta a fermare la curiosità e ad applicare l’ingegno sui più disparati campi del sapere in forme egalitarie. Il volume raccoglie articoli e brevi saggi pubblicati sulla terza pagina del ‘Resto del Carlino’ di Bologna in quegli anni, in parte rivisti e ritoccati. Il titolo inganna un po’ perché in realtà il libro ingloba il comico ma non solo. È diviso in 4 sezioni: solo la prima è dedicata alla scienza del comico; segue una parte dedicata alla ‘scienza della scienza’; quindi una che tratta di ‘scienza e fantascienza’, infine una serie di articoli su ‘la scienza veduta’.

Annota giustamente Umberto Eco, antico amico dell’autore, nella prefazione godibilissima come tutto il resto, che “il libro avrebbe dovuto chiamarsi Il comico della scienza. Perché gli articoli o brevi saggi o ‘insetti rossi’ di Celli ci parlano di una scienza che scienza è , non c’è dubbio, schidionata di fatti e di scoperte, sinfonia di storia delle invenzioni e delle intuizioni dei grandi, ma è una scienza vista a occhi socchiusi, possibilmente un bicchiere di qualche alcool in mano, lasciando cadere certi contorni più precisi. (…) Una scienza fatta di battute, aforismi, flashes, gags”. Ed è proprio così che funziona il modo d’esplorare di Celli. Che sia la scienza del comico, il ‘virus antiretorico’ di cui parlava Carlo Emilio Gadda, reagente attivo sulla fisiologia umana in forma di risata, minaccia all’ordine costituito, liberazione di tensione ed energia, caricatura, satira, o la scienza biologica a occupare la sua attenzione comprese le cantonate e gli errori scientifici (uno tra tutti: non aver dato peso per molto tempo ai piselli dell’abate Mendel da parte della comunità scientifica del tempo interessata ai massimi sistemi), Celli non rinuncia ad affrontare gli argomenti con umorismo, linguaggio immaginoso e partigianeria sempre dalla parte del paradosso. Soprattutto disorienta il suo non sottostare mai a una classificazione unilaterale in un paese che, complici le distinzioni  crociane, viaggia su due binari: o scienza o arte. E invece interpreta la scienza inserendola nell’ambito delle scienze umane e cogliendone l’aspetto immaginifico, e  l’estetica con i parametri della scienze fisiche. Non disgiunge mai la cultura umanistica da quella scientifica, non affronta mai i temi scientifici senza un qualche riferimento letterario, poetico o mitologico: parla di frutti e spunta Gozzano, di fiori e cita Palazzeschi; della futurologia e dell’Adamo prossimo venturo e cita il poeta John Donne; parla di animali e li associa ad Amleto. Spiega la fantascienza con la scienza, ma soprattutto, cosa meno prevedibile, la scienza con la fantascienza.

Si possono gustare piccoli capolavori di scrittura e di fascinazione didattica: come quando parla della natura come di “un ufficio brevetti prodigioso e a quanto sembra inesauribile” e cita tra gli altri, “il fanalino a luce fredda delle lucciole, la siringa ipodermica con cui la vespa, in un bel pomeriggio d’estate, inocula nella nostra mano incauta il veleno, il paracadute dei pesci volanti, le pile elettriche delle torpedini, che per fare solo qualche esempio, ci aprono un primo spiraglio sulle biotecniche degli organismi”.  Se le invenzioni dell’uomo sono imitazioni della natura, poiché anche l’uomo è natura “imitandola plagia se stesso. Le invenzioni dell’uomo sono delle tautologie organiche”. Sono pagine meravigliose quelle in cui l’entomologo umanista affronta le vite di scienziati eccentrici: la storia umana e l’avventura scientifica di Fabre anche detto l’Omero degli insetti, considerato il ‘bardo dell’entomologia’, o quella di Evaristo Galois che Celli definisce ‘il Rimbaud della matematica’, perché fu un genio della matematica morto a soli 21 anni; oppure quando racconta il modo in cui William Harvey ha scoperto la circolazione del sangue. Le scoperte presuppongono proprio quelle credenze magiche che vogliono debellare. Accade che per Harvey  l’uomo è un microcosmo che rispecchia il macrocosmo, secondo le teorie astrologiche del suo tempo, e allora “il cuore era così il sole del sistema tolemaico del corpo, e il percorso del sangue nelle vene e nelle arterie era l’equivalente fisiologico del moto dei pianeti lungo le loro orbite astronomiche”. Da qui la splendida deduzione : “la scienza è una magia estroversa, che si cerca e si proietta nel mondo e William Harvey,  ‘visionario concreto’, ha saputo fare della magia il suggeritore nascosto dell’esperienza”. In questi scritti,  ha premura di sottolineare che le scoperte della scienza sono innanzitutto invenzioni, che il mondo esiste in quanto grande proiezione, che i cosiddetti ‘inventori’ “attraverserebbero “come in estasi ampi territori di lavoro mentale inconscio, combinando il sillogismo e la veggenza”. Di più: ‘l’uomo capisce il cosmo perché lo fa”. Il fondamento della scienza è una sorta di allucinazione, la base della scienza è paradossalmente la fantascienza, ma la scienza è “una fantascienza economica o se preferite povera”.  In ogni rivoluzione scientifica all’inizio c’è  “qualcosa di stravagante, di delirante” o per l’appunto di fantascientifico: come quando si smise di credere a Tolomeo e la terra cominciò a girare.

Senza immaginazione non c’è scienza, per Celli, ed ecco perché i campi del sapere tradizionalmente separati li considera affini. nella paranoia rintraccia l’atteggiamento mentale fondante la ricerca dello scienziato. Stesso atteggiamento ha la fantascienza ma questa è introversa e non ha esigenze pratiche; la scienza invece è pragmatica, “immagina spesso insieme la teoria e il modo di verificarla”. Mai nessuno ci aveva detto con tanta evidenza che la scienza è un delirio, l’esercizio di un’immaginazione paranoide che a volte funziona, un relitto estratto dall’inconscio di un sogno mitologico. Una scienza vicina a quella degli gnostici,  ispiratori dell’immaginazione attiva di Carl Gustav Jung, nel senso indicato pure dai surrealisti e da Breton, ovvero “un nuovo tipo di lavoro mentale, fondato, io penso, su un uso molto particolare dell’immaginazione”. Celli parla di una “gnosi di Princeton”, per indicare un modo di esercitare l’immaginazione da parte della comunità scientifica statunitense, convinto che l’oggettività sia un’utopia finale e necessaria di ogni scienza, “ma resta un organismo filosofico chimerico”.

Per  il professore di entomologia all’università di Bologna capace di spaziare con agilità funambolica tra Pitagora e Nietzsche, gli gnostici e Darwin,i piselli di  Mendel e il libro totale di Mallarmé , è sempre necessario raccordarsi ai poeti perché le loro intuizioni liriche sono una profezia scientifica che poi si avvera. Così i versi del poeta metafisico inglese John Donne (“Nessun uomo è un’isola; la morte di ogni uomo mi diminuisce”), sono per l’alchimista, mago, polimorfo Celli un chiaro monito: “Se è vero, come l’ecologia ha dimostrato, che ogni cosa influisce su tutto, viceversa, ogni animale, ogni pianta che cancelliamo per sempre attorno a noi ci rende più poveri, porta via con sé un poco delle nostre possibilità reali di sopravvivenza”.

 

La Scienza del Comico
di Giorgio Celli
€ 8.00 – Calderini, 1982