In nome del folk, del rock e del blues – la trinità dei Girls

Scrivere due righe sui Girls e su Owens non è impresa facile. Si finisce per speculare, ragionare, mettere parola dopo parola tutti i pensieri che ti passano per la mente. Perché se c’è una cosa che i Girls ti spingono a fare è quella di pensare. Stimolano la riflessione. Strano, si direbbe, per un gruppo pop. E infatti, per contrappunto, l’altra dote della band è quella di saper emozionare: melodie e testi riportano a una dimensione retro capace di suscitare un potpourri di sensazioni che difficilmente sono trasportabili sulla pagina. Questa premessa per dire, come al solito, che mi dilungherò.

Dopo Album e Broken Dreams Club, l’annunciata terza fatica dei Girls è stata annoverata di diritto tra i dischi più attesi di questo 2011. Il duo di San Francisco, capitanato dal talentuoso songwriter Christopher Owens, salito agli onori delle cronache sia per le vicende personali della sua infanzia, trascorsa nella setta ultracattolica dei Children of God, oltre che per la bellezza cristallina delle sue composizioni, in poco più di due anni è riuscito a ritagliarsi un posto nel cuore di molti ascoltatori, balzando spesso in cima alle personali classifiche di fine anno.

Questo disco però, dal biblico titolo Father, Son, Holy Ghost (e dal didascalico sottotitolo di Record 3 – come a sottolineare la costante presenza del numero tre nella realizzazione dello stesso. Ma questa è una cosa che vedremo in seguito) sembra dividere. È sicuramente meno immediato di Album e si discosta in maniera netta anche da Broken Dreams Club. Un disco nuovo insomma. Per alcuni versi sì, per altri chiaramente no visto che Owens sempre più veste i panni del grande rielaboratore della musica tradizionale americana. Quindi che cosa è successo alla band di San Francisco? Cosa gli è passato per la testa? Come si spiegano pezzi come Die, dallo stile prettamente hard rock, nella produzione di un gruppo che sembrava tutto votato verso sottili melodie pop? Proverò, senza pretese di verità assoluta, a fornire la mia interpretazione dei fatti.

Il numero 3, come dicevo, sembra una costante del disco. Oltre a sottolineare che si tratta appunto del terzo lavoro della band (includendo così nel novero anche l’ep Broken Dreams Club) il 3 sottolinea la tripartizione del titolo, Father, Son, Holy Ghost, la trinità cristiano-cattolica che molti di noi hanno ripassato (e forse ripassano) ogni giorno facendosi il segno della croce. Azzardando a gettare la lenza un po’ più in là mi spingo a dire che queste tre figure, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, corrispondono per Owens agli ingredienti che sono alla base della musica pop: il Folk, il Rock e il Blues. Dalla combinazione di questi elementi, trasfigurativamente biblici, sacri, ecco che viene fuori la musica popolare, in tutte le sue sfumature, come oggi, così anni addietro (amen). Il disco dunque aggiunge ancora un tassello nella personale ricerca della band e al folk e al blues, già ampiamente presenti nella precedente produzione, ecco che si associa il rock.

Owens si sente libero di esplorare tirando fuori dal cilindro una serie di pezzi che poco si accordano con l’idea che avevamo dei Girls. Dalle chitarre elettriche urlanti e zeppeliniane di Die, al muro dei sei minuti abbattuto più volte da Vomit, Just a song (con tanto di arpeggio classico iniziale – roba davvero di altri tempi) e Forgiveness. Ma questa libertà, segno distintivo dell’essere e sentirsi artista, non porta a una costruzione casuale né delle melodie, né dei testi, né del pacchetto complessivo in cui il disco è racchiuso. Come confermato in varie interviste, Owens ama scrivere i pezzi pensando a come li canterebbe qualcun altro o a come li avrebbe scritti qualcuno dei suoi artisti preferiti: è il suo scrivere che è già pieno di rimandi, di echi, di appunti. Ed è questo suo rielaborare, questo suo essere cosciente di tale rielaborazione che forse lo rende uno dei massimi cantautori di questa generazione, innalzando i Girls a gruppo di riferimento. La sua ricerca, musicale, compositiva, testuale è una perfetta sintesi di quello che significa essere artista oggi: prendere i propri modelli, mescolarli con il proprio vissuto, infarinarli di cultura pop e tirarne fuori qualcosa che suoni allo stesso tempo classico e innovativo. È la cultura del copia e incolla, del libero circolare delle idee, dell’influenza reciproca, della rete. Di nuovo (ma alla fine come si può definire il nuovo? Quali caratteristiche deve possedere un oggetto culturale per essere considerato nuovo?) non c’è nulla, tutto si ricicla e tutto si ri-crea costantemente.

Al di là di tutto questo Father, Son, Holy Ghost (True Panther, 2011) rimane un disco importante, magari non perfetto, ma allo stesso tempo denso e di una sincerità disarmante, per quanto faticosamente sia stata costruita. I testi stessi, incentrati sul passato di Owens, sul suo rapporto turbolento con la madre (e con la vita in generale) , ma anche su un età della giovinezza (intesa à la Salinger) persa e costantemente inseguita ci spingono verso un immaginario con cui è difficile non empatizzare. Owens e la sua storia sono pop esattamente come lo sono le sue canzoni e il suo modo di concepire l’arte. Ed è anche per questo che, volente o nolente, i Girls si affermeranno sulla scena per rimanerci.

Chiaramente, fuori dai denti, sono le canzoni poi che rendono sostanza al tutto. E anche a questo giro la ciccia non manca: dal surf-rock di Honey Bunny si passa alla ballad elettrica Alex; dalla cavalcata hard-rock Die si rotola verso la freschezza sixty di Saying I love you; dal soul malinconico e folgorante di Myma alla camaleontica Vomit; dall’allegria di Magic alla riflessione di Forgiveness; e poi ancora Just a song, quasi un intervallo, un momento a sé nel fluire del disco, una cesura, una pausa. Per concludere poi con due pezzi, Love like a river e Jamie Marie, che ci restituiscono i Girls che eravamo abituati ad ascoltare prima che questo disco arrivasse.

Un’opera importante, spigolosa e ostica, che mette a dura prova l’easy-listener e sfida l’ascoltatore contemporaneo a cercare una chiave per l’ascolto che non sia solo quella dell’immediatezza. Un disco che va consumato per intenderne le varie sfumature, apprezzarne il suono e la ricerca che si nasconde dietro le composizioni apparentemente semplici e naif. Ma allo stesso tempo immediato nel comunicare le sensazioni agrodolci del forever boy Christopher Owens, le sue turbolenze affettive, i suoi affanni e le sue gioie. La coerenza in fondo c’è, anche se non è ben visibile sulla superficie. L’idea di completezza spinge il duo verso sfide sempre nuove che possono spiazzare ma che di certo non annoiano. E fanno ben sperare in un futuro pieno di sorprese. Nel frattempo godiamoci questo terzo album ancora una volta.

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