I volti della depressione: da malattia sociale a occasione di cambiamento

Che epoca curiosa la nostra, involontariamente dispensatrice di doni anomali. Se il dramma della colpa è alle spalle, resta la tragedia unica da insufficienza della performance che obbliga, chi più chi meno, a dosi minime o massime, ad abbracciare la depressione almeno una volta nella vita come altrove è d’obbligo andare a La Mecca. Prego favorite! Un po’ di depressione ognuno la deve almeno assaggiare e non per questioni di bile nera o antiche dicerie. Di fatti il sociologo francese Alain Ehrenberg in La fatica di essere se stessi. Depressione e società sostiene che la depressione nella sua dilatazione di significato è “una forma di malattia che si presta particolarmente bene alla comprensione dell’individuo contemporaneo e dei nuovi dilemmi che lo abitano”; inoltre costringe la psichiatria a contorsionismi (ma anche la psicoanalisi e ogni scuola di psicoterapia) perché “ieri come oggi gli psichiatri non sanno come definirla”. Il depresso poi è paziente che mette a dura prova, quasi insostenibile, perché lamentoso, pesante. Di questi e altri temi collegati si è parlato nel corso del convegno Depressione: il sole nero organizzato a Roma dall’Arpci, Associazione per la ricerca in psicoterapia cognitivo-interpersonale. Il titolo del convegno ha preso spunto dal libro della semiologa e psicoanalista franco-bulgara Julia Kristeva, Sole nero, Depressione e melanconia (1986). È emerso, tanto per cominciare, che affrontare il tema richiede un cambio radicale di paradigma: seguendo lo psicoanalista André Green non di depressione si deve parlare ma di depressioni a cui si possono applicare varie chiavi di lettura: i meccanismi d’attacco che usa, le trame familiari sottintese, l’infanticidio che la manifesta al culmine della disperazione.

Approdati al  XXI secolo qualcosa è accaduto, più di una lieve metamorfosi: “In passato la depressione era considerata una malattia mentale rara – ha precisato Gennaro Scione, direttore dell’Arpci ad apertura dei lavori – ma dagli anni ’80 si è diffusa in Occidente come un’epidemia. L’Organizzazione mondiale della Sanità prevede che nel 2020 diventerà la seconda causa di malessere solo preceduta dalle malattie cardiovascolari. C’è stato un aumento di pazienti curati per questa patologia; un vertiginoso aumento di antidepressivi prescritti anche a bambini e adolescenti; i farmaci antidepressivi sono stati oggetto di una campagna di marketing rivolta al consumatore che ha trasformato la tristezza da emozione a squilibrio del cervello che si può curare come si cura l’ipertensione. L’avanzare di un’impostazione biologica in psichiatria ha fatto sì che la distinzione tra depressione clinica e reazioni a episodi tristi sia stata eliminata e così le tradizionali classificazioni”. Vuoi o non vuoi, dunque, ci si ritrova a essere nel girone dei depressi, a meno che un lutto non conceda il ‘privilegio’ di poter indossare la tristezza così come è.

Francisco Mele, psicoterapeuta e didatta specializzato nella terapia familiare (dirige da 26 anni il centro della famiglia del Ceis) l’ha detto provocatoriamente con le parole di Martin Buber: “La depressione non deve essere lasciata in mano agli psichiatri e agli psicologi”. Come si fa a curare la depressione altrui se non si vede la propria? In questo senso per Mele molto dobbiamo imparare dalle scuole di psicologia orientali: “cinquemila anni di addestramento a sondare l’umano con rigore e severità non sono uno scherzo”. Nella sua analisi densa e complessa per spiegare una delle modalità della depressione contemporanea (fatta di precisi meccanismi d’attacco e con risvolti etici), Mele ha attinto alle teorie di René Girard, l’antropologo antiaccademico che è stato indagatore dei profondi moventi umani; si è riferito ai paradigmi della sociologia  passata (le teorie del malessere e del deficit, “teorie che Freud contesta sostenendo che la psiche umana si muove nel conflitto, legge tutta la società come conflitto che si manifesta nell’individuo come sintomo”) e più recente. Perché Mele si è detto convinto che “il tema della depressione è nel sociale. La questione ora è come la crisi sta incidendo sulla nostra psiche. Come incide sulla depressione. Stiamo vivendo una guerra economica globale e non riusciamo a capire chi sono i giocatori”.

In un mondo dove il principio della responsabilità è saltato e “quelli che hanno provocato la crisi sono gli stessi che poi ci vogliono suggerire la cura, allora c’è uno spazio micro o macro che influisce  sulla nostra psiche, c’è una correlazione tra quel che accade nel macrosociale e nel micro”. È bene secondo il terapeuta parlare di meccanismi d’attacco dei disturbi da aggiungere a quelli più noti di difesa. Mele ha individuato le modalità d’attacco del depresso nell’atteggiamento di passività o, se prevale la fase maniacale, nell’iperattività. Ambedue presuppongono ciò che ha definito ‘deficit etico di personalità’ o nella versione più grave ‘disturbo etico di personalità’. In entrambi i casi, c’è il non rispetto dei principi etici fondamentali e universali: della vita, della libertà dell’altro, della responsabilità delle proprie azioni. Situazioni in cui tutti noi in vari modi cadiamo. “Ma mentre se i batteri attaccano l’organismo non c’è giustificazione che tenga, se noi attacchiamo lo facciamo sempre e solo per difenderci o per il bene degli altri, forse per questo il meccanismo di attacco non c’è in psicologia”. Sia il deficit che il disturbo implicano quindi secondo il relatore un’intenzionalità: “tanti pensano in psicopatologia che uno scelga la propria malattia, la scelta è anche di non scegliere, di non uscire dalla depressione perché ha vantaggi la scelta della propria infelicità, le persone a volte scelgono di essere infelici, ripetono lo stesso comportamento che le porterà al proprio scacco, lo scacco del soggetto. La depressione è anche il soggetto in ostaggio di se stesso”. Un ostaggio che imprigiona anche la famiglia. Senza arrivare agli estremi di Lacan che considerava la depressione una viltà morale (“non ritengo lo sia, ha obiettato Mele perché chi è depresso sconta il proprio stato”), c’è comunque una scelta della propria infelicità. Il termine depressione quindi può stare a indicare qualcosa che va oltre il quadro psicopatologico. L’assunto di base attacco e fuga utilizzato da Wilfred Bion o il concetto di arsenale bellico, a seconda se siamo dotati o meno di armi per non subire passivamente le situazioni, sono allora segnalatori di precisi stati mentali. “Perché è sempre il confronto con l’altro con la a maiuscola di Lacan che ci permette di collocarci in un punto”. Nella depressione c’è anche di mezzo la questione del desiderio. Mele ha fatto riferimento alle teorie di Girard per il quale, a differenza di Lacan, il desiderio non è desiderio dell’altro (ciò che l’altro desidera che io faccia), ma è desiderio di appropriazione (desidero quel che l’altro desidera) e desiderio mimetico, il ‘teatro dell’invidia’ nell’opera di Shakespeare studiata da Girard, che innesca un certo tipo di depressione.

“Allora capire la depressione è capire il gioco delle alternanze che si mettono in campo. Gli ordini di riconoscimento ci portano a subire o sopportare le alternanze degli umori. Vengo o non vengo riconosciuto? Il disconoscimento provoca che vado in depressione e mi rattrista il successo dell’altro”. Nel calderone ci sono tante depressioni. Questo tipo di lettura spiega le nuove depressioni di cui ha parlato André Green. “Sono i sintomi in cui si vede di più la nostra società. Le nuove depressioni sono legate alla mancanza dell’essere di cui parla Lacan, alla difficoltà di essere al top della prestazione nella nostra società, alla paura dell’esclusione”. Pensiamo ad alcune delle minacce che pesano quotidianamente sulle nostre teste: “La Grecia esce dall’euro; l’Italia uscirà si o no? Gli esclusi non sono più quelli del terzo mondo, già nati esclusi”. Esclusi siamo noi. Il sociologo francese Ehrenberg, ha ricordato Mele, lo ha scritto: la nostra esistenza è all’insegna della precarietà emotiva, affettiva, sociale, economica. “La crisi a livello verticale della gerarchia si accompagna  alla rottura di ogni sistema di protezione, pensionistico, lavorativo, siamo soli davanti al mondo, abbiamo perso l’occasione di sentirci comunità”. Nella società dall’identità webizzata, in link-fazione, (espressioni coniate da Mele) prevale  la sensazione di essere soli al mondo. “E se perdiamo tutto come facciamo? In questo contesto paradossalmente le persone più attrezzate sono i tossicomani che sanno sopravvivere per strada”.

Luca Vallario, didatta della scuola romana di terapia familiare e psicoterapeuta a indirizzo sistemico-relazionale ha ricordato che secondo l’insegnamento di Salvador Minuchin “ogni storia portata in terapia è una storia ufficiale attenta più ai contenuti che ai processi”. Le storie che portano i pazienti sono quindi caratterizzate dall’utilizzo di logiche di causa-effetto, riduzionistiche. “Laddove è incistata un’idea di quella storia bisogna dare la possibilità alle persone di leggerla e viverla in modo diverso, entrare in una logica più complessa e creare dissonanza. Da questo punto di vista la terapia è un lavoro ‘contro-culturale’ perché introduce dimensioni che vanno oltre la cultura del paziente e della sua famiglia”. La terapia vale come contenimento ma anche come processo di cambiamento. Vallario ha mostrato e analizzato, a supporto di questa chiave di lettura, due casi clinici registrati in video, una terapia individuale e una familiare. Il sintomo allora è da intendere sempre come sintomo familiare: “C’è un problema di ‘lealtà familiari’, le aspettative che io ho su di me non coincidono con quelle dei genitori. La difficoltà che la depressione esprime è quella di non identificarsi con il proprio sistema e di non riuscire a vivere la propria vita. Il sintomo si muove dalle generazioni, pesca nella storia familiare, contiene un aspetto culturale” Molta acqua è passata sotto i ponti da quando il concetto di depressione era legato a quello del senso di colpa sofferto da parte di chi contravveniva alle regole, alla cultura del padre e di un Super-Io schiacciante. “In una cultura dove c’è il senso della prestazione e non della colpa, il vissuto depressivo si lega al non essere abbastanza. Pensiamo alle nuove patologie”. Resta l’antidoto per Vallario di un setting che sappia essere anche gioco. Un altro antidoto è recuperare la lezione dei maestri. Una è stata Melanie Klein insegnando che “il bambino diventa depresso quando capisce che la mamma che dà il seno è buona ma anche cattiva. È una fase evolutiva indispensabile. Senza depressione non si evolve. Questo vale anche per il terapeuta”. Di più: vale per tutti. Scrittori e pensatori hanno saputo intendere il risvolto iniziatico del tedium vitae. Sprofondare nella propria tana insoluta può innestare la ricerca della propria autenticità: “La sofferenza, questa è l’unica causa della consapevolezza”, sostiene Fëdor Dostoevskij nelle Memorie dal sottosuolo.La sofferenza è una specie di bisogno dell’organismo di prendere coscienza di uno stato nuovo”, scrive Marcel Proust ne I Guermantes. “Chi non ha sofferto non è un essere: tutt’al più un individuo”, senza mezzi termini chiosa il depresso ‘creativo’ Emil Cioran nel suo scritto Squartamento.

3 thoughts on “I volti della depressione: da malattia sociale a occasione di cambiamento

  • Luglio 4, 2012 alle 4:07 pm
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    Tralasciamo il fatto che nel 2012 ci si possa riferire ancora a Melanie Klein. E’ forse la chiusa, con Dostoevskij, Proust e Cioran, la parte più insostenibile: perché non ha un briciolo di rispetto per tutte le persone anonime che hanno avuto la loro vita distrutta dalla depressione, e certo senza la parvenza dell’arte a redimerne il dolore. Mi chiedo se intorno al cancro o ad un’altra malattia “ufficiale” sarebbe ammesso questo balletto di teorie superficiali o para-scientifiche, questo lieve discorrere sulle possibili cause del ‘male oscuro’, andando così ad alimentare soltanto un discorso che si parla addosso, e non e’ più utile, per un malato, di uno psicofarmaco mal prescritto. Se poi si ha interesse per le verità romanzate, tanto vale dedicarsi direttamente alla fiction.

  • Luglio 4, 2012 alle 5:04 pm
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    Gentile Luca,
    la ringrazio del suo contributo.
    Innanzitutto è bene premettere che in questo contesto nessuno si vuole fare maestro di nulla, tantomeno pretendere di sostenere verità alcuna o mancare di rispetto verso chi ha sofferto o soffre di depressione reale. Qui si danno solo degli spunti di riflessione senza alcuna pretesa risolutiva.
    Nella mia veste di autrice dell’articolo, quindi, mi sono limitata a riportare parte dei contributi che sono stati dati nel corso del convegno di cui sopra. Forse non ho reso chiaro a sufficienza che si tratta di alcune delle possibili chiavi di lettura di un fenomeno complesso e difficile che ingloba cose e situazioni a diversi livelli, ma soprattutto, ed è stata la premessa del convegno stesso, che l’etichetta depressione ha assorbito ogni tristezza, ogni maliconia o ‘normale’ tedium vitaeche non sono sempresinonimo di male né tantomeno di disturbo o di malattia. E invece in base a certe categorie nosografiche saremmo tutti depressi . Credo siano piani interpretativi che possano indurre a oneste riflessioni. I relatori infine non hanno messo certo in dubbio la depressione come male effettivo, ma hanno voluto fare emergere una situazionecrescente di disagio individuale e sociale che anziché facili etichette richiederebbe consapevolezza e magari anche restituire più valore alla terapia della parola. In quanto alle citazioni letterarie, non erano certo gratuite né finalizzate immettere la questione in una dimensione irrealeo banalmente poetica né intendevano mancare di rispetto a chicchessia. Casomai voleva essere un modo per segnalare che la sofferenza in certi passaggi esistenziali, impropriamente scambiata per ‘depressione,’ può essere la vera voce dell’anima, una risorsa interiore per trovare se stessi e scoprire il proprio posto nel mondo.
    Piera Lombardi

  • Luglio 4, 2012 alle 6:43 pm
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    Gentile Piera,
    sono io a ringraziare per la risposta chiara ed esauriente. Il fatto che si trattasse un argomento che mi tocca da vicino mi ha portato, in parte, a fraintendere l’articolo e a trarre conclusioni affrettate. D’altra parte approfitto per chiarire il mio punto di vista in materia. Le parole hanno un ruolo cardine nella mia vita e questa è un’epoca in cui si assiste, invece, ad una sovvrabbondanza comunicativa che spesso fa perdere di vista il vero significato delle cose (ammesso che lo si possa stabilire). Per questo ritengo che, se possibile, sarebbe auspicabile andare cauti con l’utilizzo delle parole, anche e soprattutto intese come strumento di terapia. Ma voglio essere più esplicito, riguardo la mia opinione, parafrasando la famosa battuta di Tom Hanks in Philadelphia: Cosa sono mille psicologi sul fondo dell’oceano? Un buon inizio. Come mai la vedo così? La vedo così in relazione a problemi seri, come può essere una sindrome depressiva e non la tristezza perché il fidanzato ti ha lasciato o un’altra fisiologica tipologia reattiva (per tralasciare poi chi usa il terapeuta per avere un confidente a pagamento). Quando il malessere è profondo e prescinde dunque, in parte, dal contesto storico/ambientale del paziente, ecco, secondo me gli psicologi (salvo eccezioni) sono ontologicamente inutili. Perché? Perché non hanno una forma mentis che gli permetta di comprendere il dolore del paziente senza inserirlo in una (comoda, per loro) catena causale a posteriori che l’ha condotto a quel pubnto e che, se opportunamente analizzata e sviscerata nelle sedute, può permettere al paziente non solo di conoscersi meglio ma anche di venir fuori dal suo stato con una rinnovata consapevolezza nell’affrontare il mondo. Chiacchiere, appunto. Chiacchiere ben retribuite che spesso hanno l’unico risultato di offrire al paziente un nuovo set di eventuali traumi / problemi / errori con i quali corroborare i propri sensi di colpa. Perché purtroppo, se il problema è serio, le parole non servono a niente. Ci fosse anche Freud in persona, che me ne faccio delle teorie più brillanti se magari non riesco nemmeno ad alzarmi dal letto? Uno psicologo non è capace, per la sua formazione, di accettare la componente endogena della depressione, e questo non fa che caricare il paziente (anche a livello inconscio) di ulteriori responsabilità che non è in grado di sostenere. Una delle chiavi del successo della psicoterapia (in particolar modo in ambito psicodinamico) è il tempo: nell’arco di un tot di mesi è probabile che la situazione di vita del paziente incontri variazioni in positivo, e venga associata, di conseguenza, la terapia al miglioramento. Dopodiché, uno può anche raccontarsi la favola che il dialogo condiviso, l’introspezione, l’ascolto possano aprire una breccia all’interno del male. Sicuramente è possibile: gli psicologi sono utili al paziente in modo inversamente proporzionale alla gravità del suo disagio. E ci saranno anche le dovute eccezioni. Come ci sono tantitissimi psicologi che abusano del termine Depressione e cullano il paziente nella sua melancolia, indifferenti all’assenza di miglioramenti ma sempre puntuali nel riscuotere l’onorario. Ancora una volta si torna al problema dell’abuso del termine, ancora una volta, forse, è possibile rilevare come l’economia nell’uso delle parole, spesso, permetta di eliminare il rumore di fondo e di concentrarsi maggiormente sulla reale entità del problema. Luca Mirarchi

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