Si stava meglio quando si stava peggio

Non basta la meravigliosa resa del Concerto per violino in re maggiore op. 35 di Tchaikovsky per consacrare definitivamente Radu Mihaileanu, il regista del meglio riuscito Train de vie.

Siamo nella Russia dei giorni nostri, dove il divario tra i ricchi e i poveri è sempre più evidente, la mafia fa il buono e il cattivo tempo e i più vivono di espedienti.

Simbolo della decadenza dell’Impero, Andrei Filipov, fra i più grandi direttori d’orchestra degli anni pre-perestroika (l’epoca è quella di Breznev), è l’uomo delle pulizie del teatro Bolshoi, laddove la sua fama aveva raggiunto l’apice e, al contempo, aveva conosciuto il declino. Tutti i suoi musicisti si sono reinventati una vita, ai margini della legalità, nelle atmosfere chiassose e colorite che ricordano il mondo slavo di Kusturica.

La trama, non proprio originale, è infarcita di connotazioni politico-sociali, che però non sono mai indagate, ma solo superficialmente accennate. I personaggi sono caricaturali, privi di sfaccettature o spessore. Così abbiamo l’uomo colto privato dei suoi mezzi e costretto a lavori umili. L’amico maldestro e brontolone ma fedelissimo. Il dirigente di partito, ottuso e burbero, ma pieno di inventiva. L’ebreo affarista che pensa solo a far soldi, anche nei momenti più inopportuni, purché nei limiti di quanto prescritto dalla religione. La violinista francese, giovane, bella e snob… ma non troppo.

Impossibile sospendere l’incredulità e non pensare “vabbe’ mo che altro si inventeranno?”: nell’era della webcrazia, il direttore del teatro Châtelet non conosce, neanche di nome, il suo omologo al Bolshoi. Un’orchestra inattiva da trent’anni esegue un concerto perfetto, senza fare neppure una prova. Una famosa violinista viene cresciuta nella menzogna da una tutrice e vive per trent’anni senza conoscere la storia della sua famiglia.
Mi sono chiesta come mai il film sia stato così ben accolto sia dalla critica che dal pubblico. Ho provato a trovare una risposta plausibile nella bellezza della riproduzione della Mosca di oggigiorno, dove la nostalgia per i tempi passati (alla “si stava meglio quando si stava peggio”) è resa palpabile dalla fotografia della quotidianità delle vite dei personaggi: il crogiuolo di culture (lo zingaro, l’ebreo, il caucasico), la creatività messa al servizio della sopravvivenza (la moglie di Andrei Filipov fa la “riempieventi”), l’ostinazione e l’ingenuità di chi continua a professare un’idealogia (quella comunista) ormai completamente ed evidentemente “scollata” dalla realtà. Ma la debolezza della sceneggiatura è così palese che non sono riuscita a distaccarmene e a godere della visione.

Pessimo tra l’altro l’adattamento italiano, che infastidisce con la pretesa di simulare l’accento russo. In particolare non è chiaro il motivo per cui i Russi, in terra russa, dovrebbero parlare come l’Ivan Drago di Rocky IV.

Il Concerto (Le Concert) – Francia 2009
di Radu Mihaileanu
con  Mélanie Laurent e François Berléand
Musiche: Armand Amar
BIM – 120 min

nelle sale dal 05 febbraio 2010