Il confine tra sentimento e patologia

Prendete quattro donne, le loro disastrose storie d’amore e una psicanalista: nella maggior parte dei casi, ne uscirà un libro alla Robin Norwood. Sì, lo evidenzio con una punta di amarezza, perché se Donne che amano troppo è stato un cult quando è uscito (anni ’70), i suoi successori non possono che esserne una copia sbiadita. Alessandra o dell’affanno amoroso; Sofia, un amore tossico; Giulia e l’assalto della passione; Adele, sulla via di un’educazione sentimentale: sono i quattro capitoli che compongono il saggio, cui se ne aggiunge uno finale incentrato sul tempestoso matrimonio tra la poetessa morta suicida Sylvia Plath e Ted Hughes (anche lui poeta e scrittore).

A fare da filo conduttore, i presupposti psicologici delle quattro donne e dei loro amori infelici. Il libro parla infatti di dipendenza affettiva e non semplicemente di scelte sbagliate. Può essere amore ciò che tiene una donna avvinta a un uomo violento? Tralasciando i casi estremi, la domanda viene spontanea ogni qualvolta ci si ritrovi di fronte a donne (e non solo) che accettano troppi compromessi. Come fanno Alessandra, Sofia e Giulia:  ragazze che hanno in comune figure genitoriali oppressive o assenti e un passato difficile alle spalle. Motivi che le spingono a cercare nell’uomo la salvezza e un sostituto dell’amore che non hanno ricevuto a suo tempo. C’è quindi chi accetta rapporti sessuali umilianti, chi sta con uomini che, sotto sotto (e nemmeno troppo) provocano in loro repulsione; chi diventa una bambolina perfetta per accontentare le pretese inconsce del partner. Fin qua siamo tutti d’accordo: in questi casi, in gioco ci sono fattori quali bassa autostima, autolesionismo, pulsione di morte (come la chiamerebbe Freud), condizionamento culturale e mille altri insondabili motivi. Ciò che non quadra, in questi racconti come in tutti i libri dedicati all’argomento, è il collegamento automatico tra la disperazione nel presente e l’assenza o carenza di amore materno nel passato.

La psicologia tende spesso a voler catalogare tutto e a individuare dietro a qualunque azione autodistruttiva sempre gli stessi moventi. Si fa un gran parlare di donne ma poi ci si ritrova immancabilmente a colpevolizzare le madri. Sempre loro. Certo  é  innegabile che in una società come la nostra nella quale è la famiglia a farla da padrone, l’influenza dei genitori sui figli abbia un peso più che rilevante. Ma dietro a certe spiegazioni c’è molto spesso una semplificazione e un aderire a imperativi culturali che generalmente, prima o poi, passano di moda. Nessuno vuole o può negare che si tratti di una delle componenti più importanti di una crescita felice o equilibrata, ma da qualche anno a questa parte non si fa altro che parlare di amore materno con la conseguenza sottile di caricare le donne di responsabilità sempre maggiori. A ogni modo, sono molti gli spunti di riflessione offerti dal libro: in tante potranno riconoscersi nei comportamenti descritti da Anna Salvo e l’operazione più interessante che l’autrice fa è quella di de-vittimizzare le donne che descrive. Operazione audace, è vero: perché chi è vittima di violenze difficilmente accetterà di considerarsi responsabile per non essere fuggita da un rapporto malato o non aver tempestivamente chiesto aiuto.

Ma l’utilità del saggio e delle riflessioni che lo sostanziano  consiste proprio nello svelare alcuni meccanismi che fanno inciampare in storie non solo sbagliate ma distruttive. L’autrice tratteggia quindi il ritratto non di vittime ma di persone adulte che, con caparbietà e determinazione, mettono in scena dinamiche infantili. Donne che si ritrovano a reclamare amore con rabbia, pestando i piedi, come si trattasse di un diritto inalienabile, senza comprendere che dietro a quella rabbia c’è una bambina che grida e che non ha potuto farlo prima, di fronte a genitori che spesso sono stati ciechi e sordi. I difetti del libro sono invece nel linguaggio enfatico e ridondante, nella costruzione a volte artificiosa delle storie, nelle spiegazioni che spesso non lasciano spazio al mistero, all’insondabile che comunque, al di fuori di qualsiasi interpretazione psicanalitica, fa parte dell’animo umano. Il capitolo migliore è indubbiamente l’ultimo: qui il linguaggio poetico ben si sposa con il personaggio trattato. La protagonista è infatti Sylvia Plath, di cui possiamo compatire, seppur in poche pagine, l’inafferrabile tormento che l’ha perseguitata fino al suicidio.

Titolo: Quando l’amore chiede troppo
Autore: Anna Salvo
Editore: Mondadori (Collana Saggi)
2006, 198 p., euro 9,40

 


One thought on “Il confine tra sentimento e patologia

  • Giugno 30, 2012 alle 1:14 pm
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    Il mistero e l’insondabile fanno parte della vita ma non della psicologia, che troverà sempre, a posteriori, una catena causale adatta a giustificare il comportamento ‘deviante’ e la corposa parcella dello ‘specialista’ di turno.

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