Il Diacono di Andrea G. Colombo: ovvero, l’horror italiano

Quando un romanzo, o più in generale un prodotto destinato al mercato letterario, si presenta sulla scena dichiarando di voler tentare qualcosa di nuovo, nuove strade, o magari anche solo nuovi modi di percorrere quelle vecchie, invece di adeguarsi perfettamente al trend commerciale dominante – beh, è proprio allora che, per quel romanzo, cominciano i guai. Sì, perché, se nel secondo caso nessuno se lo sarebbe filato e l’avrebbe lasciato al normale corso di successo o insuccesso di pubblico che attende tutto o quasi tutto ciò che si scrive, nel primo i recensori e i critici immediatamente si sentono sfidati a una sorta di braccio di ferro, per vedere se sia stato più bravo l’autore a mantenere la sua promessa o se lo saranno invece loro a dimostrare che non ci è riuscito.

Tutta questa lunga, e ahimè noiosissima premessa, per dire subito due cose. La prima: che, delle due categorie di romanzi di cui abbiamo parlato, Il Diacono di Andrea G. Colombo appartiene alla prima; la seconda, che i suddetti recensori e critici, dopo quella gara, sono dovuti tornare a casa con il braccio un po’ dolorante. Perché nel suo intento Andrea Colombo ci è riuscito eccome. E mica perché lo dico io: lo dicono le decine e decine di recensioni che potete trovare spalmate su tutto il web così come le ho trovate io, mentre mi davo un’occhiata in giro prima di scrivere questa mia. Che concordano tutte su un punto: e cioè che Il Diacono di Colombo, con la sua tessitura degli eventi (quasi sempre) magistrale e la sua capacità di tenere davvero botta fino alla fine, ci insegna che anche noi Italiani siamo capaci di orchestrare un horror tecnicamente impeccabile ed emotivamente coinvolgente. Senza per forza dover fingere di essere americani o comunque anglofoni; senza dover per forza scimmiottare brutte storie, scipite atmosfere, insulse situazioni narrative (sì, ho detto Twilight), per avere anche solo una minima possibilità di successo.

La polemica non è sterile, né fatta tanto per fare; anzi, non è nemmeno una polemica, ma semplicemente una presa d’atto. Che si inserisce in un più ampio solco, in un dibattito – seppur di nicchia – che negli ultimi mesi si sta portando avanti in Italia da parte dei narratori orrorifici nostrani (molti dei quali del clan Gargoyle, come lo stesso Colombo, o Danilo Arona, o Gianfranco Manfredi, o Claudio Vergnani) sulla dignità intrinseca e autonoma del nostro horror rispetto a quello che parla inglese. Cioè, in poche parole: perché, se io scrivo un libro de paura e lo firmo Mario Rossi, sono condannato a vendere meno copie di quelle che venderei se lo firmassi Malcolm Black? Personalmente ritengo che il fenomeno, altrimenti inspiegabile, sia dovuto al generalizzato sentimento di noncuranza e sciatteria con cui noi del Bel Paese siamo assuefatti a considerare tutto ciò che facciamo noi, di contro all’adorazione idolatrica che tributiamo invece a tutto ciò che arriva da Oltreoceano. Spesso questo atteggiamento ci destina ad autolimitarci, precludendoci scoperte che magari sarebbe cosa buona e giusta regalarci. Com’è appunto nel caso del Diacono di Andrea G. Colombo.

Il Diacono è infatti un romanzo potente: fin dall’inizio, quando Colombo decide di far esplodere una bella bomba proprio nel cuore del Palazzo Apostolico Vaticano, e fino alla fine, in un crescendo di atmosfere che ben poco hanno a che fare con la figura dell’esorcista a cui ormai decenni di film nebbiosi ci hanno abituati. In piena conformità con il clima apocalittico dell’intera vicenda, Colombo restituisce infatti al suo protagonista quel physique du rôle che le circostanze richiedono, dando al più grande esorcista di tutti i tempi le fattezze di un pugile culturista che, avendo troppo poco tempo per provare se il latino funziona davvero, decide di affidarsi a metodi un po’ più “diretti”.

Come tutte le opere prime, non è certo un romanzo perfetto: c’è ancora un po’ da lavorare sui personaggi (a volte davvero tagliati con l’accetta); così come un po’ più di coraggio nell’uso di alcune situazioni narrative, per imprimere al racconto una spinta un po’ più decisa, non guasterebbe. Ma, per quanto mi riguarda, sono rimasto francamente stupito dell’abilità di Colombo nella gestione dei dialoghi; e, più in generale, della sua capacità visiva di descrizione scenica, che gli consente di raggiungere uno dei più riusciti risultati del suo romanzo: convincere me, che in genere odio senza se e senza ma la mistione dei due diversi linguaggi cinematografico e letterario, che, in fondo, anche con tale mistione alcuni buoni risultati si possono ottenere (a patto di non lasciar troppo lenta la briglia). E questo sarà pure – lo ammetto – un piccolo passo per Andrea Colombo, che ha tutto il diritto di fregarsene; ma è senz’altro un grande passo per il suo Diacono, che riesce a giostrarsi visivamente la sceneggiatura di certe situazioni narrative così bene da disegnarcele davanti agli occhi senza che il racconto perda un filo della sua natura profondamente letteraria.

E qui mi fermo. Se volevate sapere qualcosa della trama, avete sbagliato posto: per quello ci sono i risvolti di copertina, o le recensioni di recensori che non hanno nulla da dire. O, meglio ancora, c’è lo stesso Diacono: leggetelo, e dopo vedremo se, alla sera, vi verrà ancora voglia di dire che in Italia non siamo capaci di reggere il confronto con l’horror anglofono.

Titolo: Il Diacono
Autore: Andrea G. Colombo
Editore: Gargoyle
Dati: 2010, pp. 488, 15,00 €

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