Impressioni dalla Steamland

D: Vorrei cominciare da una delle cose che mi più mi incuriosisce, e cioè la tua visione del rapporto libro-gioco di ruolo. Te lo chiedo perché Alice nel Paese della Vaporità costituisce un ottimo background per un gioco di ruolo, al punto da sembrare quasi fatto apposta, anche se immagino che non sia così.
R: No infatti, non è così, però quando ho finito di scrivere il libro ho pensato che sarebbe stato un ottimo spunto per un gioco di ruolo. Io poi ho sempre voluto creare un gioco di ruolo. Mi piace raccontare storie e mi piace farlo anche tramite il gioco di ruolo, che è un grandissimo medium. Chiacchierando con Luca Volpino è venuto fuori che magari avremmo potuto fare un gioco su Pan, ma siccome io in quel momento stavo già lavorando su Alice e siccome mi sembrava potesse essere uno spunto più adatto per un gioco di ruolo, allora… da cosa nasce cosa… e il gioco è nato.

D: Ricordo un post sul tuo blog in cui dicevi “Alice è un libro che inizia, si svolge e finisce” però, in un certo senso, non è vero.
R: Il libro è assolutamente autoconclusivo, e ci tengo a sottolinearlo: non voglio invitare i lettori a sorbirsi una saga di duecento puntate. Di certo il gioco ne è una continuazione, un sequel atipico: non aggiunge niente al libro, ma se hai voglia di costruire la tua Steamland, il gioco ti consente di farlo. Allo stesso modo, per giocare non è necessario leggere il libro. Per me è un punto fondamentale, perché non vorrei dare l’idea di avere in mente una di quelle industrie in cui se ti perdi un pezzo, ti perdi tutto… sono prodotti diversi, legati, ma diversi, e ciascuno è perfettamente godibile a sé stante.

D: Ma quindi tu ti senti di mettere sullo stesso piano un romanzo e il relativo gioco di ruolo? Molti storcerebbero il naso di fronte a un paragone simile.
R: È una vita che provo a convincere certi blog o riviste a recensire giochi come se fossero libri. Mai riuscito. Io sono convinto che il gioco non sia soltanto un sottoprodotto derivato da un romanzo, bensì un medium diverso, sicuramente più di nicchia ma non per principio inferiore.

D: E tu i giochi di ruolo li conosci bene, avendoci giocato per anni. Come ha influito questo background ludico-narrativo sui tuoi romanzi?
R: Io credo che i giochi di ruolo siano una meravigliosa palestra per uno scrittore. Soprattutto, ti danno la possibilità di avere un feedback diretto, puoi capire subito quali meccanismi narrativi funzionano e quali no, cosa emoziono, cosa annoia. È una palestra che ti dà un ritmo. E poi nel gioco di ruolo non puoi dire “io sono troppo bravo, siete voi che non capite” perché se la volta dopo non viene a giocare nessuno vuol dire che comunque non hai saputo farli divertire.

D: Sì, certo, hai un feedback immediato della tua capacità sia di creare storie credibili sia di coinvolgere.
R: Esatto, è proprio così.

D: In tutti i tuoi romanzi c’è un filo comune, e cioè l’esistenza dei tre aspetti – la Carne, l’Incanto, il Sogno – …Si potrebbe parlare di una saga “diversa”, essendo comunque ambientata sempre nello stesso universo, benché ogni volta tutto cambi salvo alcuni piccoli dettagli?
R: Sì, anche se nel prossimo libro cambieranno molte più cose. Diciamo che è una sorta di “non saga”, nel senso che c’è un fil rouge che collega tutti i romanzi: personaggi che ritornano, certi elementi che ricompaiono. Ogni libro è a sé stante e li si può leggere indipendentemente. Leggendoli tutti insieme, però, si può cogliere un qualcosa di più.

D: Hai scritto, correggimi se sbaglio, quattro saggi, tre romanzi e un gioco di ruolo. Ti piace spostarti da un genere all’altro, da un medium all’altro.
R: Guarda, tanto per cominciare penso che un saggio sia un altro modo per raccontare una storia. Detto questo, secondo me il peggior rischio che uno scrittore può correre sia di rifare sé stesso, un po’ come è successo ad Anne Rice, tanto per fare un esempio, e penso che il modo migliore per non farlo sia di cambiare ogni volta le carte in tavola. Il che può anche voler dire, a volte, deludere i tuoi lettori, che magari si aspettano una cosa diversa. Però è molto sano, tiene viva la fiamma.

D: A questo punto, quindi, dopo i saggi, i romanzi e il gioco è lecito attendersi anche un fumetto?
R: A me il medium fumetto piace tantissimo, quindi sicuramente qualcosa di mio uscirà, non so quando, non so come, non so perché, ma uscirà. Ho in mente delle storie, ho in mente dei formati, ho dei contatti con disegnatori con cui mi piacerebbe lavorare e ai quali piacerebbe lavorare con me.

D: Parliamo un po’ di Alice, un libro che ha avuto successo e che ha portato una ventata di aria fresca nell’ambito della letteratura fantastica italiana. Vorrei però saltare la parte dei complimenti e farti un paio di osservazioni: ho avuto l’impressione che certi personaggi emergessero in maniera molto forte, come la stessa Alice, il Coniglio, il Diavolo dei Crocicchi – forse uno dei personaggi migliori della storia – mentre altri rimangono molto più in disparte. Mi riferisco in particolare ai ribelli e ai risvolti di trama legati a loro.
R: Ti dirò, era quello il mio obiettivo. Io volevo scrivere un libro i cui personaggi fossero fortemente archetipici. La comparsa del capo dei ribelli Clint, ad esempio, è una palese irruzione di Conan e quindi di un certo tipo di fantasy che a me piace moltissimo. Volevo, insomma, costruire un mondo patchwork. Caratterizzare troppo i personaggi, in questo caso, avrebbe distolto l’attenzione dal mondo stesso, quindi ho preferito puntare, ispirato un po’ da una certa fantascienza anni ’50, su personaggi più semplici, tagliati con l’accetta.

D: Una sperimentazione a livello di commistione di generi e strutture narrative, insomma. Ma c’è anche della sperimentazione lessicale: in qualche occasione si trovano parole con caratteri diversi oppure allineate diversamente, addirittura un grafico. Esperimenti che a volte non sembrano molto ben inseriti nel testo, come se fossero un po’ buttati lì, ma che comunque riflettono una voglia di provare, di sperimentare…
R: È vero, ma questo accade perché la Steamland è un mondo di cose buttate lì. La Steamland è una gigantesca discarica, non solo fisica ma anche dell’immaginario. Il fatto che ogni tanto ci siano parole che sembrano emergere dalla nebbia, dalla Vaporità, fa parte del gioco.

D: Insomma, non era tanto un modo per rendere l’ambientazione quanto una conseguenza del suo essere un patchwork.
R: Sì, non era un modo per rendere la Steamland. Quella È la Steamland.

D: In Alice, poi, c’è anche una forte influenza di un genere che qui in Italia è poco frequentato: lo steampunk.
R: Sì, è vero, anche se penso che un lettore tradizionale di steampunk possa ritrovarsi spiazzato da Alice, perché nello steampunk c’è una maggiore attenzione all’aspetto tecnologico-scientifico, che io invece ho lasciato più sullo sfondo. Questo perché a me dello steampunk interessava soprattutto l’estetica.

D: Sempre parlando di generi, spesso essi rischiano di diventare delle gabbie e mi sembra che questo sia particolarmente vero quando si parla della letteratura fantastica italiana (argomento, questo, che ho trattato anche con Barbi): siamo un paese ricco di folklore, miti e leggende eppure la maggior parte dei nostri autori scrive fantasy classico, sul modello di quello anglosassone.
R: Guarda, secondo me non esiste il fantastico italiano come non esiste il fantastico inglese. Io, ad esempio, sono il frutto delle mie esperienze di vita e delle mie letture, come tutti del resto. Le mie esperienze di vita sono state principalmente italiane, ma quelle di lettura sono quasi sempre state più anglosassoni, soprattutto nell’ambito del fantasy, quindi, secondo me, è anche normale che ci sia, in Italia, un marchio anglosassone sul fantasy, perché tutti noi siamo cresciuti con Tolkien e compari. Detto questo, la cosa che dico sempre è che il più grande favore che puoi fare ai tuoi miti è ucciderli.

D: Sì perché poi anche i lettori si abituano e quindi si aspettano la saga in più libri, così come si aspettano certi stereotipi, dall’elfo aggraziato e letale con l’arco allo stregone saggio fino al Male che è sempre Male e al Bene che è sempre Bene…
R: È vero ma, personalmente, se mi voglio comprare un prodotto mi prendo un originale e non la copia.

D: Chiudo con quella che penso sia la domanda di rito: secondo te com’è l’atteggiamento dell’editoria italiana nei confronti del fantasy?
R: Non buono, nel senso che non è ancora pronta.

D: Te lo chiedo perché mi sembra che a volte le case editrici pubblichino certi libri soltanto per poter dire di aver pubblicato del fantasy.
R: È vero. Io sono seriamente convinto che la maggior parte di quello che esce sia robaccia. Lo dico da lettore, non da scrittore, quindi senza arroganza. Il vero problema è che, in media, nell’editoria italiana non c’è gente preparata a leggere testi di letteratura fantastica. C’è gente che, visto che il fantastico va un po’ di moda, decide di provarci e di cavalcare l’onda, ma non è la stessa cosa. Io però sono ottimista e penso che, piano piano, le cose possano migliorare.

D: A questo punto non mi resta che ringraziarti per la disponibilità e per la bella chiacchierata.
R: Ma ci mancherebbe, grazie a te.

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