Aamer Hussein: un albero carico di frutti angloindopakistani

Si definisce un cantastorie. E probabilmente sì, lo è, un aedo del terzo millennio Aamer Hussein, nato in Pakistan da madre indiana, a Londra dal 1970 dove si è laureato dopo aver studiato urdu, persiano, storia. È professore universitario di scrittura creativa, scrittore, critico letterario, traduttore. Conosce molte lingue, italiano compreso. È un ponte vivente tra culture: supera valichi e rintraccia nessi; se non ci sono li crea. È immerso in più culture insieme, ma la sua vera casa, dice, è la lingua madre anche se scrive in inglese con parole essenziali e calibrate. È tra gli autori più apprezzati in Inghilterra. È da poco stato pubblicato in Italia il suo ultimo romanzo, Un altro albero di Gulmohar, come il precedente I giorni dell’ibisco a cura de La lepre edizioni (entrambi sono stati tradotti dall’inglese da Valerio Pietrangelo). Abbiamo intervistato questo apolide della letteratura.

D: Nei suoi libri è sempre molto presente la componente favolistica. Nell’ultima raccolta di racconti, ci sono animali parlanti che fanno pensare al “nostro” occidentale Esopo e alla tradizione favolistica con finalità etiche che ha in Perrault il suo esponente moderno. Ma nel canto di Usman c’è anche una sorta di itinerario dell’anima al di là di connotazioni temporali e spaziali precise che curiosamente (forse perché siamo a digiuno di cultura urdu, sufi e indo musulmana) fa pensare alle fiabe dei fratelli Grimm o alla concezione della vita come processo di individuazione elaborata dallo psicoanalista Carl Gustav Jung. È cosi?
R: Certo che la componente favolistica appartiene all’Occidente come all’Oriente. Da ragazzino, leggevo molto Perrault, Andersen e i fratelli Grimm, ma queste favole, che ho scritto circa tre anni fa, hanno origini altrove. La rana parlante viene dal mio padre che me la raccontava quando non sapevo ancora leggere; il canto dell’uomo ricco e il suo vicino generoso è ispirato dal Corano; e la storia della ragazza che sposa il principe Coccodrillo l’ho letta solo undici anni fa: viene dal mio paese e mi sembrava volesse dire qualcosa sul potere e la volontà d’appartenere alle strutture del potere; quasi un’allegoria. Cosi, possiamo dire che ho cercato nel particolare l’universalità della favola. Pero ho cambiato per gli scopi miei la fine di ogni racconto. Jung l’ho studiato anni fa all’università, ma credo che quello che c’e di psicologico nei miei racconti viene dalle mie letture dei mistici mussulmani, ma rimane tra le righe – non c’e un messaggio qui, anche se le favole parlano della generosità e della grazia.

D: Lei è di origini indo pakistane. Da molti anni vive in Inghilterra. È un intellettuale cosmopolita ma nessuna categoria vale a definirla. Spesso i protagonisti delle sue opere sono poeti o scrittori pakistani. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, I giorni dell’ibisco, il poeta Armaan, torna in Pakistan lasciando Londra, perché non sopporta di essere l’intellettuale “che cerca la sua dimensione giusta nell’esilio occidentale e non sul suolo patrio”. È un suo alter ego? È una parte di sé che vorrebbe finalmente tornare a casa? Ha nostalgia della patria perduta? O la patria è solo la letteratura?
R: Ho incominciato a scrivere quel racconto 25 anni fa; e in quei giorni sentivo, senz’altro, lo lontananza della patria; ma l’alter ego, allora, sarebbe il narratore-traduttore (o traditore) con il suo senso di colpa. Alla mia città natale torno sempre, sia nei sogni, sia nel corpo; dunque la nostalgia è solo quella di chi lavora in città e sogna di tornare in campagna alla fine della settimana oppure una volta al mese. Piuttosto che la letteratura credo ora che la patria sia per me la mia lingua madre; e siccome scrivo in inglese, sono in un senso straniero dovunque sia…

D: Nella sua ultima raccolta di racconti, invece, Usman è un poeta e narratore in lingua urdu a Londra negli anni ’50 per confrontarsi in una conferenza pubblica con un collega indiano sulle ragioni della frattura tra i due paesi. Quanto pesa nella sua vicenda esistenziale e letteraria questa svolta epocale politico-militare?
R: Sono nato 8 anni dopo la spartizione e la frattura è stata importante per me, e sono tornato, molte volte, a scrivere d’un passato che non ho vissuto in prima persona; Usman per esempio ha quasi 50 anni più di me, come, poi, la narratrice de La Natura Angelica nella raccolta I Giorni dell’Ibisco…. Oggi la vicenda esistenziale più pesante, però, è cambiata per lo scrittore di nascita pakistana, con le guerre contro il terrore…; e non vivendo in Pakistan, devo affrontarlo con un’identità diversa, quella del mussulmano europeo che non è né fanatico né senza radici nella propria storia.

D: Usman torna in Pakistan, ma non sarà più solo. L’inglese Lydia per amore lo seguirà scegliendo autonomamente di convertirsi all’Islam e di abbracciare una nuova vita. Il “sacrificio” d’amore è solo e sempre femminile?
R: Conosco due uomini (scrittori tutti e due) sposati a donne danesi che sono stati dei veri gemelli maschi di Lidia, cambiandosi completamente in occidentale! Ma sì, ha ragione, è di solito la donna che si sacrifica; soprattutto nel periodo di cui scrivo in questo romanzo – a proposito, L’altro Albero di Gulmohar è un romanzo breve, diviso in due parti, piuttosto che una raccolta come I Giorni…

D: Perché scrivere? A cosa serve la letteratura?
R: Tempo fa scrivevo per scoprire le risposte. Ora scrivo perche mi sembra il mio mestiere eppure quasi l’unica cosa che so fare.

D: Dopo l’11 settembre, il terrorismo in nome dell’Islam, la guerra infinita in Afghanistan, i nuovi scenari mondiali, come e cosa raccontare? Ha senso parlare di letteratura mondiale o nessuno sfugge all’etnocentrismo?
R: Ci sono bravissimi giornalisti a rispondere a queste domande. Il mio mestiere lo vedo come più vicino a quello del cantastorie. Non ho bisogno d’essere utile nella mia scrittura, e spero che i miei lettore siano d’accordo. Comunque, come il poeta Urdu, racconto nei miei libri “qualcosa dei dolori del mondo, qualcosa dei dolori della vita…”

D: Il narcisismo, l’occidentale malattia dell’ego ha contagiato tutti? O c’è un altro modo di sentire l’esistenza e raccontarla?
R: Fino un certo punto, lo scrittore si guarda nello specchio in tutte le culture; si potrebbe dire che la poesia del 700-800, nella mia tradizione, parla solo dell’amore e della tristezza. Ma anche nello specchio vedrà, se continua a guardare, i riflessi degli altri. Credo che sia quasi impossibile scrivere soltanto di sé. Il primo impulso della scrittura è di fuggire la prigione del quotidiano; la scrittura, come la lettura, ci porta oltre le frontiere del sé…

Titolo: Un altro albero di Gulmohar
Autore: Aamer Hussein
Editore: La Lepre
Dati: 2011, 122 pp., 16,00 €

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