Jackson Pollock 1950, apogeo e morte di un rivoluzionario dell’arte

Nell’ultimo anno, mi è capitato di vedere almeno quattro mostre di artisti contemporanei che, più o meno esplicitamente, abbiano tratto ispirazione dall’opera di Jackson Pollock. La più sorprendente di tutte queste esposizioni, nonché quella in cui l’eredità pollockiana era, per ovvie ragioni, più lampante, è stata la mostra Seconde Main, al Museo d’Arte Moderna di Parigi, in cui i capolavori che fanno parte della collezione permanente del museo erano intervallati da alcuni “falsi” o imitazioni dello stile di un artista famoso, un nome di spicco del panorama artistico dell’ultimo secolo: da Rousseau a Picasso, da Keith Haring a Warhol, Modigliani, Mondrian e via dicendo.

L’artista, tra tutti, ad annoverare più tentativi di imitazione era proprio Pollock. Il collettivo Art & Language, nel 1980, utilizzò lo stile dell’artista americano, in simbiosi con l’arte di regime della Russia Sovietica, per dare vita a un ritratto in cui i lineamenti di Lenin appaiono attraverso i mulinelli di colore tipici del maestro dell’espressionismo astratto. Tra le altre opere in mostra, spiccava una dell’artista inglese Gavin Turk che, in una performance filmata, impersonava Pollock in azione così come appare nelle celebri foto di Hans Namuth.

Sessant’anni prima, nel 1950, in occasione di quel servizio fotografico, il giovane Namuth si era messo d’accordo con l’artista per ritrarlo durante la creazione di un nuovo dipinto, fatto appositamente per l’occasione. Però, quando, arrivato il giorno stabilito per l’incontro, il fotografo si presentò nello studio di Pollock, questi si scusò, dicendo che il quadro era già finito.

«Una tela coperta di colore ancora fresco occupava tutto il pavimento – racconta Namuth di quell’incontro – … Il silenzio era assoluto… Pollock guardò il quadro, quindi, all’improvviso, prese un barattolo di colore e un pennello e iniziò a muoversi attorno al quadro stesso. Fu come se avesse realizzato di colpo che il lavoro non era ancora finito. I suoi movimenti, lenti all’inizio, diventarono via via più veloci e sempre più simili a una danza mentre gettava sulla tela i colori. Si dimenticò completamente che Lee ed io eravamo lì; sembrava non sentire minimamente gli scatti della macchina fotografica… Il mio servizio fotografico continuò per tutto il tempo in cui lui dipinse, forse una mezz’ora. In tutto quel tempo Pollock non si fermò mai. Come può una persona mantenere un ritmo così frenetico? Alla fine disse semplicemente: “È finito”.»

Questo racconto, pur nella sua brevità, è illuminante riguardo al modo in cui Pollock si approcciava alle sue opere e all’arte in generale. Il dipinto, per lui, era un’emanazione dell’inconscio, un’esplosione di forze interiori, mentali, spirituali che lo possedevano in un vortice creativo e quello stesso vortice era il risultato finale. L’opera era il riflesso diretto dell’atto creativo, dell’emotività e dell’inconscio dell’artista. Nel momento in cui cominciava a dipingere, la sua attenzione era talmente focalizzata, che non esisteva null’altro che il quadro.

«Quando sono “dentro” i miei quadri, non sono pienamente consapevole di quello che sto facendo. Solo dopo un momento di “presa di coscienza” mi rendo conto di quello che ho realizzato. Non ho paura di fare cambiamenti, di rovinare l’immagine e così via, perché il dipinto vive di vita propria. Io cerco di farla uscire. È solo quando mi capita di perdere il contatto con il dipinto che il risultato è confuso e scadente. Altrimenti c’è una pura armonia, un semplice scambio di dare ed avere e il quadro riesce bene.»

La fase dei primi anni ’50, quella del dripping, testimoniata dal servizio di Nahmut, è certamente la più famosa della carriera dell’artista americano; quella in cui ha dato sfogo a tutta la sua originalità, trovando un posto tra i “classici” moderni, forse uno degli ultimi giganti della pittura. Quando, nel 1947, diede vita al dipinto Lucifer, Pollock, in un certo senso, non era ancora Pollock, sicuramente non quello che tutti conosciamo; uno di quei nomi in grado si suscitare immediatamente una precisa immagine visiva, forse come pochi altri sono in grado di fare. Di quell’opera, lui stesso arrivò a chiedersi se si trattasse davvero di un dipinto, tanto era diversa da qualsiasi altra cosa fosse stata fatta in precedenza, anche dalle sue stesse opere che, fino a quel momento intrise di influenze surrealiste, cubiste e espressioniste. Nella pioggia verde, nera e color perla che era sfociata dal suo animo, l’artista aveva trovato la sua vera voce: un’emanazione creativa senza filtri che riusciva a sorpassare tutte le influenze stilistiche e teoriche precedenti.

Nell’agosto del 1949, un articolo di quattro pagine della rivista Life, il cui titolo era: “È lui il più grande pittore vivente degli Stati Uniti?”, accompagnato da un primo servizio fotografico di Nahmut che anticipava quello dell’anno successivo, fecero di Pollock una vera e propria star. Purtroppo l’artista non resse la pressione della fama, decise di abbandonare la tecnica del dripping per seguire nuove sperimentazioni e, contemporaneamente, cadde preda dell’alcool. A soli quarantaquattro anni, la vita di Jackson Pollock si spense in seguito ad un incidente automobilistico.

Aveva fatto comunque in tempo a diventare uno dei più grandi artisti della sua epoca, forse il più importante artista statunitense di sempre; certamente uno dei pochissimi che siano stati in grado di mettere in discussione le nozioni acquisite sull’arte e la creatività, un rivoluzionario, una sorta di Nietzsche della pittura, i cui gesti, come ha scritto il critico Harold Rosemberg, erano altrettanti atti di liberazione dai valori – politici, estetici e morali.