L’inquieto borderline tra desiderio e bisogno di sicurezza

“L’umanità ha sempre barattato un po’ di felicità per un po’ di sicurezza”. Per il Sigmund Freud che nel 1929  scrive “Il Disagio della civiltà”, la felicità,  a mettersi d’impegno, la si realizza, certo a costo di rinunce, strategie, incessanti soluzioni di compromesso, continui aggiustamenti tra ostinata volontà di affermazione individuale e bisogno di attenuare paure in ascesa ricevendo dall’esterno protezione. Bruno Callieri, medico filosofo, ma a questo punto del suo lungo cammino esistenziale e professionale preferisce esser considerato antropologo d’ispirazione fenomenologica, fa sua la riflessione di Freud  per proiettare un cono di luce sul nostro millennio oscillante al massimo grado tra smisurate ambizioni di libertà da parte del singolo   e macroscopiche paure tanto personali come di massa. Contempla Freud e non solo,  la sua  relazione su “L’ambiguità della scelta tra sicurezza e desiderio, tra speranza e felicità” con cui ha  aperto la dodicesima edizione delle Giornate ascolane, prestigioso convegno di psichiatria che si svolge ogni primavera nella città di Ascoli, dedicato quest’anno a “Essere e intersoggettività. Intersoggettività dell’essere. Il dibattito moderno tra clinica, psicopatologia, psicoanalisi, neuroscienze ed etnopsichaitria” (per la prima volta l’intero congresso è stato interamente proposto in video in diretta sul canale tematico della rivista Psychiatry on line).

Fin dal titolo, la relazione è volutamente “incerta” e attraversata dall’incertezza, perché è la tematica a essere di per sé ambigua, così come la questione dell’essere e dell’intersoggettività che ha ispirato il convegno. Non per incertezza, tutt’altro, bensì per una prassi del dialogo, Callieri ha condiviso la sua relazione, ospitando nel suo discutere di speranze e desiderio, l’intervento della psichiatra e psicoanalista Gioia Marzi che ha messo sotto la lente d’ingrandimento la speranza nelle diverse stagioni della vita.

Il divenire di ognuno è sempre compreso tra due poli: tradizione e innovazione, il già e il non ancora, sicurezze acquisite e desideri ancora informi. Quasi a considerarsi lui stesso il portatore della tradizione, l’altro da sé viceversa l’innovatore, si  definisce come intriso di “sicurezze sclerotizzate”, intanto però Callieri anche in questa occasione spinge la mente oltre ogni abitudine, oltre ogni fuga difensiva nel ruolo.  Interrogandosi sull’animo umano si mette in ascolto, interpella filosofi e pensatori (Gioia Marzi chiede aiuto alla letteratura), per raccontare un po’ di che tessuto siamo filati, che densità e che peso specifico hanno i nostri sentimenti. Così facendo innova il punto di vista e svela la vita interiore tra natura e cultura. Il fatto è che “le scelte sono sempre ambigue e le scelte che ognuno di noi ha fatto, fa e farà possono rivelarsi fallaci, ingannatrici, atrocemente deludenti dopo un breve iniziale sfavillio”. Callieri parla di “immaginario dell’innovazione”: per innovare bisogna immaginare, ma innovare richiede un’esistenza capace di concedersi una progettazione a lungo termine. Le circostanze epocali fanno sì che all’immaginario dell’innovazione si sia sostituito un “edonismo fragile”. Tra fugacità e casualità, pare che ci si muova con un certo diletto, in assenza d’altro. Dopo il Lacan del “desiderare il desiderio”, smarrito lo sforzo romantico del desiderio infinto, Callieri vede l’approdo attuale nella “decostruzione di un ideale ascetico”. Un ritorno a Epicuro, Democrito, Lucrezio, parrebbe di capire un ritorno astuto e opportunistico, così da poter aderire più e meglio alla materia “vile” o avvilita, essendo stati svuotati i tre filosofi del sistema di pensiero di riferimento, e presi a modello quali antesignani del materialismo dell’oggi, un certo materialismo tecnologico.  Ecco, nel grande dilemma, tra desiderare e cercare appigli, Callieri annota gli ingredienti proposti da Freud per raggiungere una certa stabilità interiore, a partire dalla constatazione del grande “baratto” della felicità per la sicurezza: il dominio sui propri bisogni in senso stoico (l’esatto contrario della lezione epicurea); lo spostamento della libido verso altre mete. Una è realizzare il meccanismo difensivo della sublimazione “ad alto rendimento sociale” perché “ci rende felici di essere noi stessi anche se sappiamo che siamo vulnerabili e perciò sempre un po’ inquieti”. La felicità potrebbe svanire, c’è sempre da aggiustare il tiro. Altro ingrediente freudiano, “l’appagamento fantastico come strategia d’evasione sussidiaria”. Un movimento che, dichiarato o latente, è sempre in noi, fino allo sconfinamento nella “trasformazione delirante della realtà” quando la dialettica incessante tra passione e ragione vede un solo vincitore.

Di che desiderio parliamo quando si parla di desiderio? Questa è l’epoca delle sirene incantatrici seppur afone, dell’ “onnivoro modello di benessere” avverte l’antropologo: tra il “nuovo paradiso” in terra, i grandi magazzini, l’obbligo che tutto passi per il mercato e l’eterno imbonitore, la pubblicità, non solo sfugge l’infelicità altrui provocata da urgenze letali (fame, debilitazione, violenza), ma si è “all’eclissi pressoché totale del volto dell’altro”, secondo l’accezione di Lèvinas. Ci rendiamo conto dell’altro quando è già passato, quando è solo un fruscio: “allora capiamo che era un volto espressivo”. Il desiderio è motore umano, insito nello stato di natura, è un dio, il dio kama della mitologia indù che somiglia all’Eros greco. Un dio complesso, ben oltre le pulsioni basiche. Tra piacere e dolore, “nella dialettica natura cultura, si pone la versione sartriana del desiderio che concerne l’appello alla trascendenza, ma lo sorpassa come coscienza della mancanza”. Callieri si riferisce poi a Heidegger “fastidiosamente presente”, perché il desiderio va connesso alla natura progettuale dell’uomo. Tuttavia il termine desiderio ha un ventaglio semantico complesso che ingloba anche il bisogno di sicurezza, intesa “come difesa e protezione contro le minacce del proprio fondo pulsionale e dell’ambiente”. Callieri fotografa un inquieto borderline, un crinale fragile che condanna molti “a vagare spaesati tra desiderio e sicurezza” in un’eterna sofferenza psichica.

Secondo Gioia Marzi, tra i sentimenti vitali la speranza non è un puro sentimento di piacere, ma ha anche un aspetto passivo che è un temere, ma proprio questo suo aspetto ambiguo consente di contenere la paura. A una totale paura si contrappone una totale speranza. La speranza è filtrata attraverso il tempo.  Al polo apposto c’è la disperazione; altra cosa è il non sperare di chi è triste o ha sentimenti deboli. Nella disperazione “crisi radicale che interessa le radici stesse dell’essere” è colpito il fondamento dell’uomo “perché il futuro è vissuto come impossibilità di ogni volere”. La psichiatra si appella al Pirandello dell’atto unico, “All’uscita”. Nell’invenzione dello scrittore si incontrano alcuni defunti sulla soglia del cimitero, hanno appena lasciato il corpo, ma portano ancora un caparbio attaccamento alla vita. Il contrasto  si risolve con una trovata: la comparsa di un piccolo defunto che, una volta appagato un semplice desiderio, mangiare una melagrana, svanisce. Appagato il desiderio che era rimasto fino a quel momento insoddisfatto, i legami con la vita sono recisi. Viene in mente Goffredo Parise de “I sillabari”  per il quale ‎”la mancanza di desideri è il segno della fine della gioventù e il primo e lontanissimo avvertimento della vera fine della vita”. Articolata è la descrizione fenomenologica della speranza. È un’invasione dinamica, che ci pone in una condizione quasi di alienazione da noi stessi. Fa credito, offre tempo, tratta generosamente la realtà anche se ci smentisce e sembra contrastare i desideri. C’è un talento originario nella speranza, è  “uno dei fondamenti di ogni antropologia”. Nella psicologia di Giobbe, caratterizzata da pazienza, fiducia, sicurezza, si riconoscono i tratti di una speranza che ha aspetti religiosi. Come la speranza cristiana che attende il compimento di una promessa. In termini diversi, anche la teoria psicoanalitica riconosce la speranza quale “ quantum energetico che sfugge alla coazione a ripetere”. La speranza spera per ottenere un bene possibile e si declina secondo la condizione e l’età; la fanciullezza ha speranza perché ha il futuro; poi diventa campo di attesa della realizzazione dei progetti; in vecchiaia, che non è malattia ma modo d’esistere, la speranza ha varie modalità di manifestarsi o d’essere oppressa. A volte la vecchiaia è sinonimo di solitudine e malattia. Ogni medico può constatare, tuttavia, anche davanti al quadro clinico più negativo, un persistere irrazionale della speranza, persino quando la malattia è terminale. Da dove viene allora questo sentimento estremo pronto a rinascere anche sulla soglia estrema? Dove si alimenta? Sembrerebbe esserci “uno spostamento di livello, da quello personale e mondano a quello trascendente, ma “è di osservazione comune il fatto che coesistono elementi vitali accanto a elementi trascendenti, realizzandosi così una vera e propria contaminazione di livelli o una fusione di livelli”. Giunti al limen, non c’è argomentazione che tenga. Si è in un altro regno, tra la grazia e il mistero, in cui non si appartiene più a nessuna definizione.