Le ore del silenzio: vita segreta di una donna

Quale miracolo saper riprodurre a parole il suono esatto del silenzio interiore e, per contrasto, l’assordante fragore degli stati d’animo incalzanti. È un incanto in miniatura Le ore del silenzio, (Skira edizioni, 2012) tanto fitto quanto leggerissimo ed essenziale diario di un’anima femminile sfaccettata e inquieta. Un personaggio che appartiene al tempo, lei, Magdalena van Beyeren, la stessa che compare di spalle in un famoso quadro di Emanuel de Witte (Interno con donna alla spinetta), pittore olandese del Seicento da cui l’opera trae ispirazione, intenta a suonare la spinetta, quindi reinventata per via letteraria, ma che è anche senza tempo. Perché è testimone dell’impatto della vita con i suoi accadimenti, minimi o di gran portata, sulle donne. Racconta quanto ognuna di noi sconti in termine di drammi privati, sogni infranti, aspettative deluse, desideri inappagati, presto o tardi rinunce, una realtà spesso arida e violenta per l’ottusità che irradia, al punto che ci costringe a gelare o tramare con il silenzio per riuscire a sopportarla. Le ore del silenzio sono anche le nostre. Prese e comprese, al di là dei contesti spazio-temporali differenti (l’essenza è la stessa che tu sia un’imprenditrice ante litteram del ‘600, alla direzione della compagnia olandese delle Indie Orientali o un’anonima cittadina del villaggio globale), tra ruoli imposti, ereditati, doveri, l’incessante tempesta emotiva negli abissi, la vita vera che giace sempre più sotto, nascosta, incomprensibile a tutti, specie allo sguardo maschile. Magari quello di un coniuge che  comprende solo un alfabeto di emozioni spicciole e bisogni primari. O che crede di rispettarti ignorandoti. L’unica cosa all’apparenza diversa è che oggi c’è un gran traffico di chiacchiere e pare che le emozioni al femminile siano perciò finalmente espresse, liberate. Eppure le incognite della grande traversata, la vita, restano le stesse, come le note di dolore indigesto che ci costringono nelle nostre ore del silenzio a una sottile infelicità, taciuta o rimossa, oltre le condizioni materiali, l’agio economico (se e quando c’è).

Buona la prima, allora è il caso di dire: davvero brava e talentuosa la francese Gaelle Josse che alla sua opera narrativa d’esordio si pone subito nel solco della migliore tradizione letteraria d’introspezione, di chi affida le ‘confessioni’ dell’anima al libro. Si vede che Gaelle è una che ha acutizzato e al tempo stesso disciplinato i sensi attraverso l’esercizio della poesia e così la sua prosa, lirica ma sempre misurata, lo rivela. Se un’opera letteraria è l’esito di un’urgenza, un pretesto ordito di parole che incanala il non detto regalando uno stato di grazia anche nel raccontare turbamenti e inciampi esistenziali, ecco allora questa è un’opera letteraria a pieno titolo; un piccolo classico oltre le mode, i generi, i gusti e i disgusti di un tempo di melma e saturazione. Come un classico, il libro produce la magia della propagazione: il personaggio Magdalena, molto più che per una suggestione estetica del momento, vive, arriva sotto pelle, torna  a visitarci a lettura ultimata, magari nei caotici e spesso insensati itinerari di donne dell’oggi costrette all’odiato multitasking più per sopravvivenza che per vocazione. Perché noi siamo un po’ Magdalena, lei dà voce a qualcosa di noi: la parte nascosta, persino soffocata, che è nella composizione delle nostre cellule, sconosciuta talvolta persino a noi stesse.

Durante tutto il tempo della lettura del diario di Magdalena danzano i colori e gli stati emotivi della vita. Perché, mentre apre il cuore e ripercorre i fatti salienti della sua vita (un trauma da bambina, il dispiacere del padre per non aver avuto figli maschi; il suo orgoglio di adolescente nell’affiancarlo nella gestione della compagnia navale, l’incontro con l’uomo della vita, i tanti figli avuti, tra quelli vivi e quelli tragicamente morti, e il resto che va letto anziché svelato), ricerca il senso vero della vita di una donna, moglie e madre. Svela quanto sia forte l’oppressione e cosa resti, oltre i fuochi delle stagioni e degli assalti del tempo. Ricordi antichi o un residuo d’amore puro. “Col tempo, torniamo più facilmente alle nostre gioie d’infanzia, sono i ricordi che ci accompagnano con rara fedeltà. Ritrovare ciò che abbiamo provato in quei momenti rimane una fonte di felicità che nessuno potrà sottrarci.  Il corso delle nostre vite è disseminato di pietre che ci fanno inciampare e di certezze che si fanno via via più deboli. Possediamo solo l’amore che ci è stato dato e che non ci è stato mai ripreso”.  Alchimie misteriose dettano la gestazione delle opere. In questo caso, più che da una ‘sindrome di Stendhal’, Gaelle nello scoprire il quadro di De Witte da cui è scaturita l’ispirazione del libro, è stata colpita dall’atmosfera assorta ed enigmatica del dipinto e dal ‘mistero’ della donna che si fa ritrarre dando  le spalle mentre una domestica sullo sfondo svolge le pulizie.  Quali segreti nasconde quel ripiegamento su di sé? Il diario è la voce di una vita parallela e segreta: “Questa confessione mi dà pace: custodiamo in noi una gran quantità di pensieri e ricordi e non troviamo mai qualcuno disposto ad ascoltarli. Il cuore scoppia a contenerli tutti”. E l’ordine apparente non sempre è un appiglio, una cura, né lenisce gli agguati della vita: “Ordine, misura e lavoro sono argini contro le difficoltà dell’esistenza. Ce lo insegnano fin da bambini. Vana credenza! Ogni giorno che passa, mi ricorda, se mai fosse necessario, che vivere una vita è tutt’altra cosa che amministrare un carico di spezie o di porcellane.  Ciò che tentiamo di costruire attorno a noi somiglia alle dighe che gli uomini erigono per impedire al mare di sommergerci. Sono edifici fragili in balia della natura. Debbono essere continuamente consolidati o rifatti. Il cuore degli uomini, temo, ha minor resistenza”.

Titolo: Le ore del silenzio
Autore: Gaëlle Josse
Editore: Skira
Dati: 2012, 96 pp., € 13,00