Let’s play this summer out

The Tallest Man on EarthCosa decide un cambio di stagione? Sono davvero le condizioni meterelogiche a determinarlo? È il sole che fissa se le nostre giornate saranno in un certo modo oppure no? Senza dubbio è un elemento fondamentale ma a volte perché il cambio avvenga sul serio serve una spinta, un aiutino necessario che permetta alla bella stagione di entrare in circolo, sotto pelle oltre che in superficie: abbiamo bisogno di qualcosa che spazzi via ogni ombra o oscurità, qualcosa che serva a resettarci per poi poter ripartire freschi come delle rose. Io, personalmente, affido questo ruolo alla musica. E quest’anno in particolare agli album di Walkmen, Sonny And The Sunset e The Tallest Man On Earth.

The Walkmen - HeavenDopo appena due anni dall’elegiaco Lisbon i Walkmen tornano sulle scene con 13 canzone nuove di zecca e un titolo che è tutto un programma: Heaven (Fat Possum/Bella Union 2012). Se pensate di ritrovare quelle armonie ondivaghe e melò -mediterranee che avevano caratterizzato il disco precedente, scordatevelo, siamo da un’altra parte. La ballad d’apertura, We Can’t Be Beat, ci fa entrare con dolcezza nella nuova creatura della band newyorkese: inizia sommessa, con la possente voce di Leithouser appena sussurrata e la chitarra pizzicata. Poi intorno al secondo minuto si avverte che qualcosa inizia a cambiare, il suono si ingrossa, parte il coro, la chitarra suona accordi decisi, si sale, si sale, si sale per poi lasciare che la voce di L. si innalzi su tutto introducendo così la seconda parte del pezzo, la parte del riscatto, quella in cui canta, con tutta la voce che ha in corpo, we can’t be beat/the world is ours. E il riscatto, il rialzarsi, il risalire sembra proprio il tema centrale di questo disco, in cui le sferzate di chitarra , gli attacchi decisi della batteria e i quattro quarti insistenti di gran parte dei pezzi proiettano l’ascoltatore in una dimensione di rivincita, di possibilità ancora aperte, di certezze che sembravano ormai perse e compromesse e che adesso ritornano. Love Is LuckHeartbreakerSong For LeighNightingalesThe Love You LoveHeaven (il cui ritornello incita prepotentemente remember remember all we fight for) possiedono tutte una carica capace di restituirti una determinazione che con sé porta una consapevolezza, e cioè che molto è ancora possibile, che rialzarsi è naturale oltre che doveroso e che combattere, sempre e comunque, forse è l’unica cosa che ci rimane per sperare che un giorno questa terra possa essere davvero un paradiso.

Sonny & the Sunset - Longtime CompanionUn  altro disco che accende le luci è Longtime Companion (Polyvinyl 2012) di Sonny & the Sunsets, band capitanata dell’eclettico Sonny Smith  che, per l’occasione, abbandona le suggestioni garage e psichedeliche per dedicarsi al country. Quale la scintilla di questo cambiamento? Il fatto che Sonny volesse raccontare la rottura con la sua storica ragazza, quella con cui ha condiviso gli ultimi dieci anni di vita. Un disco tutt’altro che allegro dunque. Almeno nei testi, perché la musica invece è un vero toccasana. La doppietta iniziale, I Was Born e Dried Blood, rappresenta il manifesto del disco: un country di stampo classico con incursioni pop nei ritornelli, capaci di incastrarsi magneticamente in testa. Children Of The Beehive è un blues elettrico mentre Pretend You Love Me, uno degli episodi più belli del disco, ammalia con il suo giro di basso avvolgente. La psichedelia delle origini è ripresa in I See the Void, ballad elettroacustica di ottima fattura mentre il country classico compare ancora in Sea Of Darkness e My Mind Messed Up, il primo più lento e  dilatato, il secondo invece dalle sfumature più  bluegrass. Come prevedibile e come è giusto che sia il finale dell’album è dedicato a un ballad languida e dalle tinte soul, l’ideale congedo  di Sonny dalla sua Longtime Companion.

Di The Tallest Man On Earth aspettavo il nuovo disco ormai da tempo. Il vecchio (di due anni) The Wild Hunt mi aveva conquistato per la semplicità apparente di composizione e produzione, per quel suo essere diretto e senza fronzoli, un folk alla vecchia maniera capace di spazzare tutte le nubi che si affacciano all’orizzonte. E questo nuovo  (Dead Oceans 2012) non si discosta di molto dal precedente, del resto non è che potessimo chiedere molto di più al già mostruosamente talentuoso Kristian Matsson. Il disco, anticipato dal bellissimo singolo 1904, in realtà appare più “calmo” del precedente, e con qualche aggiunta strumentale in più (una chitarra elettrica, un pianoforte) ma la forza è sempre quella, la capacità di scrivere canzoni dense, pregne  da affidare a una voce bobdylaniana e a una chitarra elettrica che arrivano dritte al cuore.
Le schitarrate piene di Wind And Walls, l’arpeggio trasportato di Revelation Blues e Leading Me Now, il lirismo di Little Brother e On Every Page, il crescendo di To Just Grow Away eCriminals, la serenità di Bright Lantern e la quiete raggiunta di There’s No Leaving Now sono tutte caratteristiche che rendono questo disco la colonna sonora della riconciliazione. Tutto il resto andasse pure a quel paese: non c’è preoccupazione che tenga.

Schiacciamo play e godiamoci il nostro tempo: l’estate è alle porte.