Lezioni americane, ovvero un incontro ravvicinato con Joe Lansdale

Domenica 24 ottobre, l’autore americano Joe Lansdale, in Italia per la presentazione del suo ultimo romanzo, ha fatto tappa alla libreria Fanucci per un firmacopie. La Fanucci è anche la casa editrice di molti suoi libri, incluso quest’ultimo, il noir Devil Red: ulteriore puntata del ciclo che vede come protagonisti i due detective strampalati Hap e Leonard; un bianco di mezz’età, senz’arte né parte ma con un suo profondo, per quanto personale, senso etico, e un nero per di più gay, accoppiata che nell’ultraconservatore Texas orientale non è molto ben vista.

Fra situazioni horrorifiche al limite dello splatter, violenza esasperata e femme fatale alla Chandler, questa volta i due protagonisti cercano di risolvere il mistero della morte di un giovane ereditiere e della sua ragazza, muovendosi fra sette sataniche e aspiranti vampiri.

Non è di questo però che vorrei parlarvi, e se dovessi consigliarvi qualche libro di Lansdale opterei non tanto per il ciclo di Hap e Leonard, ma per i suoi romanzi che vedono i bambini come protagonisti, come In fondo alla palude, o L’ultima caccia.

Quello che voglio raccontare è il mio incontro con Joe.

Qualche giorno prima di questo firmacopie, mi chiama una mia amica che lavora in libreria per chiedermi se mi andrebbe di spalleggiare lo scrittore durante la sua presentazione. Io sono una traduttrice, non un’interprete, e lo faccio presente, ma lei mi dice che si tratta di un semplice aiuto con lo spelling dei nomi italiani e di fare da tramite fra lui e i suoi lettori nel caso questi vogliano fargli delle domande.

Accetto incuriosita e vado anche a “studiare” su youtube per vedere quanto riesco a capire della sua parlata americana. Sono rincuorata, Joe parla in modo molto chiaro e anche piuttosto lentamente, a beneficio del suo pubblico straniero.

La domenica in libreria è pieno di fan, soprattutto ragazzi che gli fanno le stesse domande che ho ascoltato su internet. “Le piacerebbe se qualcuno dei suoi libri diventasse un film?”, “È vero che considera Hap il suo alter-ego?”, “Cosa ne pensa del sogno americano?”. E Joe risponde a ogni domanda con l’entusiasmo della prima volta: lui, che deve aver sentito quelle domande qualche miliardo di volte, mentre io, che sarò solo alla decima, sono già stanca.

Sarebbe felicissimo che un suo libro diventasse un film: ha scritto la sceneggiatura per diversi di essi e di qualcuna già hanno acquistato i diritti, spera che prima o poi si decideranno. Hap è sicuramente il suo alter-ego, ma un alter-ego sfortunato, uno che a differenza di lui ha fatto le scelte sbagliate, o non ne ha fatte. Hap, diversamente da lui, al sogno americano non ci crede.

Joe invece sì: è un americano vero, nel senso buono del termine, di quelli cioè che credono alle infinite possibilità che si aprono a tutti. Di quelli che dal tempo dei pionieri partono alla ricerca di nuovi mondi, della stirpe di scrittori che va da Mark Twain a Stephen King e che prima di diventare ricchi e famosi sono sopravvissuti facendo mille mestieri. Difatti, Joe è stato bidello e carpentiere, viene da una famiglia composta da un padre analfabeta e da una madre che ha fatto solo le elementari.

Joe crede che con la volontà e la perseveranza, spesso, si ottiene tutto, ed elargisce consigli con simpatia e semplicità al ragazzino un po’ imbranato accompagnato dalla mamma orgogliosa. Lei ci tiene a raccontare che il suo pargolo ha letto la Divina Commedia all’età di soli dieci anni, e che vorrebbe diventare scrittore come lui. Il ragazzino confida di aver passato quell’estate a leggere tutti i suoi romanzi, Joe fa un’esclamazione sorpresa (forse pensando come me che gli avrebbe fatto meglio giocare all’aria aperta) e poi lo incoraggia. Per diventare uno scrittore, dice, la prima cosa è la costanza. Ogni giorno alla stessa ora bisogna sedersi a scrivere per un determinato lasso di tempo; non deve essere un tempo troppo lungo, basta che sia sempre rispettato. Iniziare una storia è facile, il difficile è completarla. E poi bisogna leggere, leggere molto e leggere cose diverse.

Consigli forse banali, ma detti da lui, e con quell’entusiasmo, sembrano infallibili.

Poi arriva la ragazza smorfiosa, occhi azzurrissimi e capelli rosso acceso, che gli chiede se si ricorda di lei e gli confida (novella Melissa P?) che sta per uscire il suo primo romanzo. Lui accoglie la notizia entusiasta, le fa i complimenti e gli auguri per la sua carriera in erba. Poi ancora, parla di arti marziali col giovane barbuto e si confronta sulle rispettive tecniche ed esperienze; esorta tutti a farsi una foto insieme a lui, non che abbiano bisogno di incoraggiamento, ma lo fa.

Sembra instancabile fino alla fine dell’incontro, poi ci confida di essere esausto dopo una ventina di giorni di tour (ormai concluso) e dopo i due incontri di quella giornata.

Certo, non basta sedersi tutti i giorni a tavolino davanti a un foglio per diventare scrittori. Eppure quel pomeriggio, specie a confronto con lo snobismo degli intellettuali nostrani, Joe mi sembra abbia dato, per quanto quell’entusiasmo possa essere in parte simulato, una grande lezione di umiltà e di professionalità.

Torno a casa e sono quasi tentata di cominciare a scrivere un romanzo. Poi, dato che non sono abbastanza americana, lascio perdere.