Il passato è un pianeta straniero

“Egli sogna, adesso. E che cosa credi che sogni?”
“Nessuno lo può indovinare”
“Ma come, sogna di te. E se smettesse di sognare di te, dove credi che saresti tu?”
“Dove sono ora, naturalmente”
“Niente affatto non saresti in nessun luogo. Perché tu sei soltanto una cosa dentro il suo sogno.”
“Se il Re dovesse svegliarsi, tu ti spegneresti… puf… come una candela.”
(
Lewis Carroll, Attraverso lo Specchio e quel che Alice vi trovò)

Un saggio orientale si chiedeva chi fosse più felice tra un re che sognasse ogni notte di essere un servo e un servo che sognasse ogni notte di essere un re. La risposta, implicita, era che, in un certo senso, non c’è alcuna differenza tra i due perché un sogno ripetuto ogni notte diventa parte integrante della vita stessa.
Che i sogni possano essere più vividi della realtà è, naturalmente, un’idea cara alla letteratura fantastica e gotica. Scrittori come J. L. Borges o H. P. Lovecraft vi hanno costruito sopra la propria fortuna.
A chi non è capitato, almeno una volta, di fare un sogno talmente intenso da odiare la sveglia che lo interrompeva bruscamente, ripristinando la solita realtà?
Ma come reagiremmo se quel sogno così coinvolgente si protraesse per giorni, mesi, forse persino anni? Cercheremmo in tutti i modi di svegliarci o saremmo, infine, soddisfatti che quella maledetta sveglia abbia smesso di nuocerci?

È questo, sostanzialmente, il dilemma che tormenta il detective Sam Tyler quando, in seguito ad un incidente d’auto, si ritrova inspiegabilmente proiettato nel 1973.
Se Tyler è smarrito e preoccupato, scopre che, invece, per gli abitanti della New York del 1973, il suo arrivo non ha nulla di sconcertante: ci sono regolari documenti di trasferimento e persino un alloggio assegnato dalla polizia. Prima ancora di capire esattamente cosa sia potuto accadere, quindi, Sam si vede costretto a lavorare per mantenersi e per indagare con più facilità anche sulla sua incredibile esperienza.
Frustrato dalla sensazione di impotenza, Sam cerca, per quanto è possibile, di affrontare la situazione con razionalità e, da bravo detective, per prima cosa stila una lista delle possibili spiegazioni. Le ipotesi di Sam vanno dalle più realistiche – come il coma indotto dall’incidente d’auto – alle più fantasiose – come un vero e proprio viaggio nel tempo – .
La questione, dunque, è: cosa, di quello che vive Sam, esiste realmente e cosa è, invece, un prodotto della sua immaginazione?
Mentre cerca risposte alle sue numerose domande, Sam deve anche adattarsi al nuovo mondo che, a dire il vero, gli sembra estraneo come un altro pianeta.
Gli anni Settanta ci appaiono vicini e molti di noi vorrebbero indietro le camicie col colletto a punta e gli hippie che suonano nei parchi. Ma per chi venga dagli anni 2000, quel periodo potrebbe non essere del tutto piacevole.

Il politically correct, infatti, è molto in là da venire e un distretto della polizia di New York sembra il posto meno indicato per cercare i primi segnali di progresso sociale.   L’esterrefatto Sam, quindi, non solo deve accettare che si possano far cadere briciole di hot dog su una scena del crimine (dal momento che le analisi del DNA non sono ancora state inventate), ma deve anche assistere alle sistematiche discriminazioni nei confronti di omosessuali, donne, obiettori di coscienza, dissidenti. Persino all’interno della squadra, Annie, l’unico membro femminile, viene chiamata (poco) affettuosamente Senza Palle e trattata alla stregua di una segretaria, pur essendo l’unica ad avere conseguito una laurea, e, spesso, l’unica a saper usare il cervello.
Se ci fermassimo qui, Life on Mars sarebbe una serie investigativa che ha avuto la furbesca trovata di ambientarsi in un’epoca che riscuote ancora un successo incondizionato nell’immaginario popolare. Ed è così che, grossomodo, potremmo definire la serie creata da Matthew Graham nel 2007 per la BBC inglese.

Ma è giunto il momento di fare una confessione; di ammettere l’intrinseco senso di superiorità culturale che ogni europeo nutre tacitamente nei confronti degli americani.  Fondato o meno che sia, questo radicatissimo pregiudizio fa sì che si dipinga sulle nostre labbra un sorrisetto di scherno quando ci giunge notizia che qualche regista americano intende girare il remake di un titolo europeo. La mania americana del remake ha dato vita a prodotti che nemmeno vogliamo nominare, sperando che, presto o tardi, scompaiano dalla memoria del mondo, come i rifacimenti de La sirene du Mississipi di François Truffaut o de Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders.

Forse sono questi gli stessi pregiudizi che hanno alimentato le feroci critiche rivolte al remake americano di Life on Mars, inaugurato dopo nemmeno due anni dal lancio della serie britannica. Uno dei bersagli preferiti dei fedelissimi della versione originale è stata l’inadeguatezza degli attori statunitensi. Ma, a dispetto di ogni previsione, sembra che invece, una volta tanto, siano stati gli americani a far meglio. E se possiamo accettare che qualcuno si risvegli all’improvviso nel 1973, possiamo accettare anche che gli USA segnino un punto contro la Madre Patria. Non ci sembra, infatti, che ci sia davvero nulla da rimproverare all’interpretazione di Jason O’Mara nei panni del detective Tyler. E non lo diciamo solo perché l’attore irlandese è scandalosamente attraente. Pare che anche Steven Spielberg la pensi come noi, dato che, come protagonista della sua nuova serie Terra Nova, ha appena scritturato proprio O’Mara. E, sicuramente, una menzione speciale la merita anche un Harvey Keitel al meglio delle sue potenzialità nei panni del bruto dal cuore tenero Gene Hunt, dispotico capo del distretto.

Ma cosa rende la versione USA migliore della sua sorella maggiore?
Se la serie britannica rimane una storia investigativa, anche se un po’ insolita, il remake americano si distacca progressivamente dalla trama originale, percorrendo strade narrative sempre più immaginifiche e intimiste. È chiaro, sin dai primi episodi, che le avventure vissute da Sam nel 1973 non sono che le rielaborazioni dei suoi ricordi, dei nodi sospesi del suo passato. Non a caso, attraverso le indagini del distretto di polizia, Sam riesce a venire in contatto con tutte le persone che hanno segnato la sua vita, realizzando alcuni dei suoi desideri impossibili: difendere la propria mamma quando era giovane e bella, incontrare il proprio mentore quando era ancora agli inizi, conoscere la procace baby sitter quando si ha finalmente l’età giusta per fare sesso con lei.

Pur diventando sempre più consapevole che il mondo del 1973 non è altro che la propria interiorità dilatata, Sam finisce con l’affezionarsi profondamente alle persone che lo circondano. Ma davvero nessuno di loro esiste? Davvero se Sam si svegliasse svanirebbero nel nulla? Annie (Gretchen Mol), che è l’unica a cui Sam abbia confidato di venire dal futuro (senza essere creduto, ovviamente), sorride di questa ipotesi: lei, come ognuno di noi, non si sente affatto il parto dell’immaginazione di qualcun altro.

Se all’inizio Sam fa di tutto per tornare nel 2008, in seguito si ritrova a chiedersi se non sia più felice lì, in quel mondo del 1973 dove tutto è così diverso e illogico.
Indagando per le strade di una New York dai colori seppiati, Sam viaggia all’interno di se stesso, spesso dolorosamente. Questa storia è costellata di momenti di lirismo che è difficile riscontrare non solo in altre serie tv, ma persino nei prodotti cinematografici. Un livello così alto non può, naturalmente, rimanere costante in ogni singola puntata, ma di sicuro Life on Mars USA è un testo insolito, poetico, onirico.

Boicottata, denigrata e incompresa, questa splendida serie tv ha vissuto solo una stagione. Ma cosa accadrà infine al detective Tyler? Si tratta davvero di un sogno o ha realmente viaggiato nel tempo? E se fosse morto?
Il finale pensato dagli autori statunitensi ci ha lasciati un po’ perplessi e, di sicuro, non manca di originalità. Forse, se Josh Appelbaum, Andre Nemec e Scott Rosenberg avessero avuto un’altra stagione per sviluppare la trama, noi spettatori saremmo stati colti meno di sorpresa. Ma non vogliamo anticipare nulla. Anzi, per evitare spoiler, consigliamo di stare lontani dalle pagine internet dedicate alla serie. Diciamo solo che Senza Palle avrà, finalmente, la sua rivincita morale.
Life on Mars è un racconto imperdibile e indimenticabile. Perché siamo noi stessi il più affascinante dei pianeti sconosciuti.

Life on Mars (USA) 2009
ideata da: Matthew Graham (serie originale inglese)
per il network: BBC
sviluppata da: Josh Appelbaum, Andre Nemec e Scott Rosenberg (remake USA) per il network: ABC
con: Jason O’Mara, Harvey Keitel, Gretchen Mol, Michael Imperioli