Una fiaba che non lo è. Spaventosa, struggente.

Nell’introduzione a questo libro, si dice che Cristina Sánchez-Andrade appartiene alla stessa razza di Agotha Kristof. È vero, ma non è detto che il confronto le faccia gioco. La scrittrice più matura, infatti, è trasgressiva e onirica, unica nel suo genere tragico, grottesco, amaro come il fiele. La più giovane è specchio opaco della drammaticità a cui si ispira. Non ho goduto appieno di questa fiaba dai toni sanguigni e crudeli, non ho digerito del tutto il dolce suono di certe ispirazioni e immagini dipinte ad arte. Nulla da ridire, certo, se non si è letto Agotha Kristof.

Ma se la prima parte del romanzo lascia perplessi e stanca, la seconda parte, però, arriva presto, e commuove.
Lo stile è limpido e asciutto, non annoia mai, non si lascia andare a cadute: è attento.
La storia è quella di due bambini, fratello e sorella, e di una/due vecchie “duplicate e a loro volta divise”, rappresentazione di un male che è assoluto ma allo stesso tempo innocente, naturale. Un male che sembra non ferire, un dolore che sembra aleggiare nella vitale aria dei respiri. Del resto, “forse Satana potrebbe essere un Dio sdoppiato”.

I bambini, vittime e carnefici, vivono di sogni, incubi, mancanza e marmellate dolcissime di fichi. Vittime inermi, dagli occhi sgranati e carnefici sempre più consapevoli. Occhi che indagano, si riducono a fessure nello sforzo adulto del comprendere, del provare a capire, occhi che piangono. E sopravvivono in una natura che anch’essa vive e respira, ansima. Ferisce e protegge.

C’è spazio per molti colori tra le pagine. Arrivano quasi di sottecchi a tingere i pensieri e la morte. C’è il verde delle rane e delle fronde degli alberi, il rosso cremisi del sangue, il rosa tenue della pelle della bimba, il grigio denso e pesante della desolazione, dello smarrimento, c’è il nero. C’è il marrone del volto di Luisito, uno dei due bimbi, il più piccolo. Il marrone delle sue mani. Ed è poetico, semplicemente bello, che sia stata la terra mangiata dalla madre mentre era incinta a renderlo di quel colore. “Ti sei nutrito di terra nella pancia di tua madre, Luisito […] per questo sei così nero, figlio mio. Adesso vattene. Domani ti racconterò ancora”.
C’è il giallo scuro e denso dei fiori marciti e “se il giallo porta sempre con sé un po’ di luce”, come diceva Goethe, allora in questo romanzo a tratti c’è anche la luce, c’è il sole, c’è il fuoco.

Questa fiaba crudele è di quelle che rimangono dormienti tra i ricordi ma capaci di risvegliarsi all’improvviso e di indurci, in primavera, ad acchiappare una lucertola per sentire se davvero ha l’odore dell’erba.

Titolo: Le lucertole hanno l’odore dell’erba
Autore: Sánchez Andrade Cristina
Editore: La Nuova Frontiera (collana Liberamente)
Dati: 2003, p. VIII-139

Acquistalo su Webster.it