Madre e matrigna: l’inconscio rimosso fa collassare l’Universo

“Mi rende la vita difficile, continua sempre a dirmi che io faccio spavento, ed è critica, io l’adoro, però vorrei tanto che sparisse”. Invece farla sparire non si può, anche a tentarle tutte, persino le soluzioni più assurde, come chiuderla nella scatola di un mago illusionista e lasciare che venga trapassata da spade affilate.  La madre terribile non scompare mai, piuttosto te la ritrovi che volteggia sul cielo di New York, che appare e scompare tridimensionale e aerea per controllare il figlio, Woody Allen-Sheldon, avvocato ebreo cinquantenne, opprimerlo davanti a tutti e trattarlo da eterno bambino. ‘Edipo relitto’ è invenzione cinematografica esilarante di Allen, ma dietro la trovata geniale sta a svelare una componente femminile in noi che vive per schiacciare gli altri ed esercitare un potere assoluto. E come non ricordare, ancora Woody Allen, la mammella gigante, novantesima misura, coppa x, partorita dallo scienziato folle che ‘allatta a morte’, uccide le persone, terrorizza una città in ‘Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere?’. Le citazioni filmiche, tra le infinite possibili, sono associazioni spontanee conseguenti la lettura de ‘Inconscio: madre e matrigna. L’archetipo della grande Madre e il suo carattere elementare”.

Il libro scritto da Maria Mirella d’Ippolito, psicoterapeuta di evidente formazione junghiana con innesti rogersiani, ha il pregio di sintetizzare e chiarire quali e quanti archetipi materni vivono in noi, illustrare i punti cardine della Weltanshauung junghiana (archetipi e simboli archetipici, principio di individuazione, Animus e Anima, Ombra, inconscio individuale e collettivo, grande madre elementare e trasformatrice). Sullo sfondo sempre la lezione di Jung, gli studi di Neumann e le indicazioni di Carotenuto, il libro presentato da Bruno Callieri e con prefazione di Sebastiano Fiume, focalizza l’attenzione sugli elementi positivi e negativi del carattere della grande madre attraverso una scrittura  che abbraccia l’interdisciplinarietà. È uno studio che cerca e trova corrispondenze: l’archetipo della grande madre “contiene l’intero universo”, il buio e la luce, la nascita e la morte, attraversa l’intera storia umana, riguarda tutte le civiltà e culture,  l’inconscio collettivo come quello individuale; è termine di scontro, confronto,  talvolta incontro e auspicata integrazione, sia per il maschile che per il femminile trattandosi di forza ambivalente primordiale; è “di fondamentale importanza sia nello sviluppo psicofisiologico della persona ‘normale’, sia nella psicopatologia”; richiede di essere esplorato da una psicologia aperta, dialogica, autocritica, amica del dubbio, capace di  rimescolarsi con antropologia, religione, arte, letteratura, scienze sociali, intuizioni feconde. Per questa ragione lo studio bussa alla porta di qualche fiaba, intercetta il mito, i miti e l’arte decodificando i simboli di sculture africane; linguaggi diversi che raccontano le modalità di rappresentazione della grande madre.

L’autrice individua anche un parallelismo tra l’ambivalenza dell’archetipo materno, forza che nutre e protegge o che abbandona e semina morte, e la teoria del dualismo pulsionale di Melanie Klein. Infine tenta un’applicazione clinica dell’archetipo della grande madre, nella psicosi autistica. È il passaggio più periglioso e meno convincente: la neuropsichiatria indica la causa dell’autismo in fattori genetici e deficit cerebrali (è appena terminato a Roma il convegno della Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza in cui è stato ribadito il dato come acquisito). Forse non è opportuno applicare interpretazioni psicoanalitiche al disturbo autistico intendendolo come cartina di tornasole di una “madre buona fortemente carente”. La stessa autrice ammette nella premessa che le evidenze scientifiche danno spiegazioni genetiche sul’origine del disturbo, ma poi ritiene di dover considerare altrettanto importanti le risposte di alcune zone dell’encefalo ai cambiamenti emotivi dell’ambiente. Ammette anche che la sua ipotesi è un azzardo. Prima  di inchiodare le madri vere a colpe devastanti (se mai si dimostrasse che l’autismo è scatenato anche da fattori inconsci) e implicite condanne ce ne vuole.

La lettura dell’archetipo materno è invece affascinante, suggestiva e anche funzionante quando si applica alle dinamiche inconsce degli individui, maschi e femmine, e delle società umane. Quando manifesta la giovinezza e vitalità di una psicoanalisi capace di praticare una ‘immaginazione attiva’,  in grado di spiegare con linguaggio altrettanto allusivo e simbolico, parte del mistero del nostro essere. Le sculture sub sahariane passate in rassegna dall’autrice stanno lì a dimostrare che la grande madre è dea e immagine primordiale del femminile (come d’altra parte testimoniano le statue di altre sponde meditarrenee, siano di Venere, Demetra o di Iside). Ci sono due modalità di raffigurare la dea e esprimere il suo carattere elementare. Può essere vaso che contiene, dal ventre rigonfio, le mammelle abbondanti, a volte le braccia che sono elementi attivi dell’azione e del movimento mancano. È signora della gravidanza e della nascita perché simbolo della fertilità, fissata nel carattere soccorrevole, protettivo e nutriente. In altre, invece, il seno si assottiglia o scompare, la testa è ingrandita: la figura si emancipa dal mondo dei sensi, prevale la raffigurazione astratta e l’aspetto trasformatore. La dea è anche dea della morte, manifesta spiritualità ed essenzialità proprie del mondo dei morti e degli spiriti che le conferiscono un carattere numinoso.

Scrive Jung: “tutte le funzioni psichiche che ci appaiono oggi consce un tempo erano inconsce, eppure agivano all’incirca come se fossero coscienti”. L’intera storia dell’umanità e quella individuale, contemplano questo passaggio fondamentale: strappare all’inconscio il primato per approdare alla luce della coscienza. Così è nei miti e nelle fiabe dove l’eroe si cala negli inferi, nelle caverne, affronta il drago e lo vince. Questo percorso, anche nel lavoro psicoterapeutico, è possibile a patto che il cammino non significhi rimozione o distruzione della forza primordiale, ma sappia riconoscerla, affrontarla e integrarla. ‘L’inconscio  – scrive D’Ippolito – è infatti la madre di tutte le cose : tutto ciò che nasce e giunge alla luce della coscienza è figlio di questa profondità primordiale”. Ora poiché la coscienza umana è intesa come ‘maschile’ e l’inconscio è esperito “nella sua globalità come materno-femminile” con questa forza occorre dialogare, sia la personalità maschile o femminile. “Come la madre genera il bambino, così l’inconscio genera la coscienza”. La forza soffocante dell’inconscio, la forza terribile del femminile che trattiene, fagocita, attira verso la regressione, blocca nella dipendenza passiva, fissa all’informe e all’indistinto propri delle origini, terrorizza la coscienza. “Tutta la vita dell’umanità, e certamente dell’umanità primitiva (e in gran misura tutta l’umanità è primitiva) – spiega D’Ippolito – è in lotta con la forza soffocante dell’inconscio che attira verso la regressione, aspetto terribile del Femminile. Lo sviluppo della coscienza verso l’alto si identifica invece con il Maschile e la proiezione di queste qualità sessuali simboliche rispettivamente sulle donne e sugli uomini determina la posizione sociale e religiosa dei due sessi, finché non diviene cosciente il significato psicologico dei simboli”.

È un itinerario conflittuale e sofferto che porta a sperimentare il lato terribile della grande madre proiezione della propria Ombra, spesso rafforzata “dal mondo esterno, da una madre personale realmente negativa”.  Streghe, fantasmi, demoni, vampiri sono l’altra faccia del calore, del nutrimento, della protezione; esprimono una forza che cattura, divora, distrugge. Le dee della guerra e della caccia danno conto di questo aspetto amministrando la vita e il sangue, richiedendo tributi umani e sacrifici; le dee dei morti e della morte personificano una magia negativa; la madre terribile per eccellenza è la dea indiana Kali, “la crudele divinità del massacro avida di morte”. Una divinità che unisce caratteri femminili e maschili: le Gorgoni greche sono accompagnate da serpenti, possiedono gli attributi maschili, “tutti simboli uroborici della potenza primordiale del terribile femminile nel suo aspetto divorante di terra, notte e mondo infero”.  Con l’avvento della società patriarcale e del cristianesimo, la dimensione negativa dell’archetipo femminile è stata rimossa a favore di quella positiva: donna-Madonna accogliente, paziente, riparo, vaso contenitore, mucca, dea e signora della mandria. La civiltà occidentale ha lavorato e lavora con tutte le sue forze a respingere il femminile terribile che “appare oggi come contenuto primordiale o inconscio”, strega degli inferi o diavolo. Eppure la dimenticanza o cancellazione delle forze istintuali può provocare contrappassi all’insegna della distruzione amplificata. Se la donna non riconosce il femminile in sé, negativo e positivo, non potrà compiere la trasformazione spirituale che la innalza a Sofia, madre spirito, dea della totalità capace di governare la stessa trasformazione. Figura non più fissata sul lattante, bambino-uomo, da allattare- trattenere a sé. Resterà ‘orchessa’, fata cattiva delle fiabe, donna-granchio, Giona e la balena che divora nel suo ventre l’eroe solare, grembo di nascita che diventa castrazione dell’io, culla che diventa bara.

L’uomo e la donna devono di necessità ‘uccidere la madre’; molti eroi della leggenda hanno due madri, e da entrambe, madre personale e archetipica, bisogna affrancarsi per non essere indistinti e superare il rapporto di dipendenza. “Eros – scrive Carotenuto, citato nel testo – è sempre per ogni vivente, il desiderio di favorire la realizzazione del più proprio e più vero se stesso. Il prezzo di questa ricerca è lo strapparsi a forza dall’immagine interna della Madre, il primo oggetto d’amore indifferenziato, che guida a mia insaputa ogni mia ricerca”. La personalità maschile a sua volta, potrà compiere l’itinerario di realizzazione del Sé, unità o totalità della psiche che racchiude tutti gli opposti, solo agganciandosi all’Anima, “la forma più pura del carattere trasformatore che alletta e incoraggia il maschile a superare tutti gli ostacoli e i pericoli della psiche e ad affrontare tutte le avventure dello spirito per mutare, trasformare, creare sia interiormente che esteriormente”. La bella addormentata e la principessa prigioniera sono emblemi del carattere trasformatore del femminile.

La storia della nostra civiltà, infine, ci invita a riflettere su quale aspetto della dea madre sia stato gravemente trascurato se non boicottato e  si vendica tornando in superficie come natura matrigna e femminile terribile. Nella bella addormentata nel bosco, la bambina benedetta da fate madrine è maledetta da una di loro non invitata alla festa. Dimenticanza letale: “la dea della sessualità” si vendica costringendo la ragazza a un sonno di cento anni che è una morte, proprio nell’età della pubertà che è esplosione di forze primordiali. Il lato oscuro di madre natura che si credeva scansato, affiora più potente. Il fuso, simbolo fallico, Animus negativo della dea madre, costringe al sonno della morte una civiltà che si regge su una iperattività inerte quanto velenosa e si ancora a una coscienza esterna demandata a una forza solo in apparenza neutra, la tecnologia. L’uovo cosmico che non contiene la duplicità ambivalente e la corrente alternata dell’Essere, non potrà far nascere l’uomo nuovo. Collasserà un po’ alla volta su se stesso nel frastuono di una ragione impura.

 

 

 

Titolo: Inconscio: madre e matrigna. L’archetipo della grande madre ed il suo carattere elementare
Autore: Mirella D’Ippolito
Editore: Alpes Italia
Dati: 2009, 74 pp., 8,00 €