Diario di un senza fissa dimora al tempo della “crisi”

Dovrebbero essere obbligati a leggerlo tecnici al governo e grandi manovratori della finanza; speculatori che prima hanno innestato la cosiddetta crisi e poi cercato di porvi rimedio ma solo per salvare le banche; burocrati di stato che per aggiustare conti pubblici hanno finito per scassare del tutto la vita di milioni di individui resa fatalmente precaria,  e coll’accentuare il divario tra una minima rappresentanza di ricchi e sempre più poveri.  Diario di un senza fissa dimora (Cortina editore) è il ritratto crudo della nuova povertà invisibile, del guasto irreversibile nel meccanismo sociale che non miete vittime in apparenza, non disturba, non ostenta lo scandalo del fallimento di un sistema, eppure c’è. Marc Augé, autorevole etnologo e antropologo che per scelta di vita e metodo di lavoro ha sempre valicato i confini dell’accademia, è approdato ora all’ultima frontiera: l’etnofiction, genere narrativo di sua invenzione, di cui si è servito per raccontare cosa stiamo diventando, un mondo alla deriva.  Nella dichiarazione d’intenti che fa da premessa al racconto, Augé precisa che l’etnofiction “non è né un saggio né un romanzo”, ma “una narrazione che evoca una realtà sociale, osservata attraverso la soggettività di un singolo individuo”. Augé ritiene che per rendere conto di un fenomeno emergente sempre più in crescita, quello dei ‘nuovi erranti’, nuova categoria di poveri che hanno un lavoro ma non un reddito sufficiente per pagare l’affitto e sostenere le spese obbligatorie, costretti a dormire da amici, in centri d’accoglienza o sempre più spesso in auto, in certi casi definiti come senza domicilio stabile per diffenziarli dai senza fissa dimora veri e propri, non ci si possa trincerare dietro gli studi tradizionali, i numeri, le fredde statistiche.  L’antropologo ha usato la finzione letteraria perché attraverso la descrizione di un caso soggettivo i lettori possano immaginare la totalità sociale che esprime; esattamente la procedura inversa a quella delle ricerche sociologiche.

Infatti il suo personaggio che scrive il diario è un simbolo di un male epocale: l’uomo obbligato a essere testimone e vittima a un tempo della follia di un sistema che costringe a perdere se stessi, l’essere, la propria identità, il senso delle relazioni, i punti di riferimento spazio-temporali, tutto. E fa presagire un disturbo mentale nuovo, una psicosi da marginalizzazione e annientamento sociale.  “Candide o il Persiano di Montesquieu – scrive Augé nella premessa – erano personaggi di etnofiction, ma guardavano il mondo per stupirsene. Oggi il personaggio di un’etnofiction guarda dentro di sé e scopre la follia del mondo”. Il protagonista, un funzionario in pensione del fisco, potrebbe essere anche un benestante con i suoi 2 mila euro di pensione, a confronto con altre realtà  diffuse. Eppure, dopo il divorzio dalla seconda moglie, tra spese di mantenimento della prima e costi dell’affitto che dovrebbe sostenere interamente da solo, conti in tasca si accorge che sarebbe costretto a sopravvivere con appena 500 euro (condizione anche questa dolorosamente diffusa). Scatta in quel momento la decisione di abbandonare la casa in affitto e la vita ‘stanziale’, di vendere tutti i suoi beni, disfarsi di ogni ricordo, cominciare a vivere nella sua vecchia Mercedes che “fa ancora la sua bella figura, nonostante i diciotto anni suonati”, di volta in volta parcheggiata nei viali di Parigi e di scrivere sul computer (unico bene oltre l’auto di cui dispone) il diario quotidiano di questa condizione al limite, registrare il progressivo scivolamento verso il basso per esistere almeno come voce narrante.  Non c’è né ci può essere nessuna condizione di esultanza per chi è obbligato a una fuga continua che significa azzeramento della propria identità: “La mia particolare situazione accentua il senso di estraneità di quel momento. Non essendo io più nessuno, credo di percepire più intensamente di quanti hanno una vita più stabile della mia l’assoluta gratuità della mia presenza in città; stavo per dire sulla terra, ma avrebbe un suono troppo metafisico”.

Unici sforzi sono gli accorgimenti per tentare di salvare la rispettabilità sociale: far credere alla portiera della sua ex abitazione di essersi trasferito altrove, avere molta cura nel vestirsi così da scongiurare il pericolo di sembrare un barbone; cercare di preservare l’identità frequentando il proprio quartiere,  continuando i rapporti sociali, “insignificanti ma essenziali” caratterizzati da frase fatte e parole di circostanza con il panettiere, il macellaio o il barista; non dire nulla ai pochi amici che vivono altrove perché il pudore non permette nessuna confessione. Il diario è il resoconto dei progressivi sforzi di adattamento ai problemi che la nuova realtà pone: come e dove poter andare al bagno, come e dove riuscire a lavarsi, dove poter parcheggiare l’auto e sostare senza essere visti e senza rischiare multe. Mentre si accentua l’estraneità del protagonista  al mondo, altro non resta che registrare le dinamiche quotidiane per non impazzire. Sembrerebbe arrivare una chance quando incontra una donna; lei gira nel mondo dei ‘non luoghi’ (già descritti da Augè: autostrade, supermercati, anonime cattedrali dei consumi che costituiscono il nostro spazio) per fare fotografie e vive una condizione seminomade privilegiata, di chi può farlo per scelta avendo però anche una casa. Ma l’uomo, ormai sradicato, violentato nel suo essere, non se la sente di cominciare una convivenza, non ha più forze per ritentare la vita ‘normale’: “Difficile interpretare una parte quando non ha più ragione d’essere, e difficile restare al proprio posto quando lo si è perduto, o vivere con altri quando si è, noi stessi, senza domicilio fisso, quando non si ha né loco né foco, e forse neanche più un nome”.

 Titolo: Diario di un senza fissa dimora
Autore: Marc Augé
Editore: Cortina Raffaello
Dati: 2011, 132 pp., 9,50 €

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