Matti da (non) legare: la contenzione però esiste ancora

Sono stati e continuano a essere, con riluttanza e disappunto o con perfetta adesione al ruolo, i guardiani dell’inconscio, i controllori della follia, i garanti della normalità. Tutori dello status quo  sociale e di chi lo rifiuta,  a loro è demandato il compito di gestire l’aggressività ma anche la sofferenza umana, sbarazzarci dall’ignoto e dalle paure ataviche della nostra (neanche troppo latente) labilità mentale proiettata però sempre all’esterno. Oggi gli psichiatri sono chiamati a svolgere un fondamentale esercizio di autocoscienza per ridefinire i compiti e la professione, decidere finalmente chi essere.

La contenzione, solo fisica prima, fisica e/o farmacologica poi, è parte fondamentale della storia della psichiatria, anche attuale. Ma fino a quando dovrà continuare a esserlo? È l’interrogativo che anima l’operato di Piero Sangiorgio, direttore del dipartimento di salute mentale della Asl RMH, intervenuto al convegno dedicato alla Gestione operative delle condotte violente che si è svolto a Genzano. Sangiorgio ha curato (con Gian Marco Polselli) la pubblicazione di un volume dal titolo eloquente Matti da (non) legare (Alpes edizioni) che è raccolta di studi ed è di per sé un atto di coraggio perché con grande onestà intellettuale e a viso aperto tratta il problema che riguarda i cosiddetti operatori della salute mentale hanno di applicare ai pazienti la restrizione della libertà. Anche stavolta, Sangiorgio non si è trincerato dietro il ruolo,  ha raccontato apertamente le zone d’ombra di una professione complessa.  Con la riforma psichiatrica del 1978 (Legge Basaglia)  il principio ispiratore è che il malato di mente abbia  gli stessi diritti degli altri pazienti e quindi non debba più essere curato in base alla pericolosità sociale attraverso la custodia; la cura e il ricovero diventano una libera scelta della persona, solo in casi particolari si può intervenire contro la volontà tramite un trattamento sanitario obbligatorio, definito atto sanitario e non di controllo sociale.

La contenzione dovrebbe essere l’extrema ratio motivata solo dalla pericolosità del paziente per sé e per gli altri: purtroppo non è così e ciò che accade è la spia di un fallimento terapeutico, di paure umanissime, di una catena di incomprensioni e, per Sangiorgio, l’indice di una scarsa qualità di una struttura terapeutica. Dal punto di vista normativo, in Italia, dal dopo Basaglia, la situazione è tutt’altro che chiara.  Ogni Regione legifera in materia, ma c’è una mappa alterna e disomogenea: “La Toscana dal 2010 proibisce la contenzione. Anche in Puglia si sta andando in questa direzione. In Emilia Romagna, i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura e i Dipartimenti di salute mentale sono stati disciplinati con una circolare, certo se ne discute molto”. Sangiorgio si è occupato di monitorare la situazione nella regione Lazio. E i dati emersi sono preoccupanti.

L’aggressività del paziente. “Quale relazione c’è tra psichiatria e aggressività? Il comportamento aggressivo di chi è? Che relazione c’è tra psichiatria e aggressività? Da quando è iniziata con Pinel la psichiatria moderna – questa la premessa di Sangiorgio – i matti sono malati di mente che vanno trattati umanamente. Noi siamo figli del manicomio che appartiene alla nostra storia”. Nell’ ‘800 nei manicomi si tentava di riportare il folle a uno stato di civiltà e inclusione sociale. Restò però isolata l’esperienza pioneristica inglese di John Connoly  che chiuse i manicomi e dimostrò che era  possibile fare a meno della contenzione. Connolly, contrariamente a Pinel, si oppose alla repressione del malato a favore di un confronto per “decifrarne la sua apparente incomprensibilità, per la comprensione della sua apparente violenza”. La sua pratica avanguardista traeva origine dalla critica della repressione manicomiale e dalla esigenza di socializzare col malato per prevenire quella che sarà definita, dopo un secolo, ‘patologia da istituzionalizzazione’.  Allo stato attuale la psichiatria è ben diversa da quella immaginata da Pinel o Basaglia: “c’è stato uno scontro furioso tra fautori della violenza in psichiatria e progressisti. Da dieci anni invece  gli psichiatri si interrogano se la psichiatria sia umanitaria o no. In tutta Europa, dalla più civile Svezia, all’Inghilterra, alla Danimarca, alla Germania vige l’uso della contenzione che significa tenere legati i malati a letto per giornate intere e molti malati finiscono per morire”. In Italia l’ultimo episodio che ha riaperto l’attenzione sui reparti psichiatrici è stata la morte, il 4 agosto 2009, di Franco Mastrogiovanni, il maestro di Castelnuovo Cilento, un pacifico omone di due metri  morto nel reparto di psichiatria del San Luca di Vallo della Lucania dopo 80 ore di contenzione senza né bere né mangiare. E tutto questo mentre le telecamere di sicurezza collocate nel reparto filmavano la sua morte. Quello dello psichiatra è un lavoro asprissimo dal punto di vista medico-sanitario, legale, deontologico, etico. “Noi psichiatri abbiamo sempre un’attenuante: che ci dobbiamo confrontare con situazioni di crisi”. Sangiorgio ha cercato di far cadere veli, simulacri e monitorare la situazione delle strutture del Lazio: 22 servizi di diagnosi e cura hanno aderito all’indagine. Perché un’indagine del genere? “Nei servizi diagnosi e cura il basso indice di violenza è indicativo della qualità di quel servizio e delle relazioni che esistono nella struttura”.

I dati. Nel Lazio si fanno ben 3 contenzioni al giorno,  100 al mese, 1200 in un anno. “Misuriamo a quel punto l’impotenza delle nostre strategie perché la violenza si perpetua e chi è stato legato, per il trauma e l’umiliazione tende a reagire con sempre maggiore aggressività”. Nel 2009, si sono avute circa 24 mila ore in cui pazienti sono stati sottoposti a contenzione, con una media che va dai 30 minuti a paziente a 165 ore. Ora la metodologia utilizzata sottende sempre un’ideologia. E il concetto dell’aggressività del paziente è relativo: “ha a che fare con il rapporto tra chi guarda e chi è guardato e come si sente guardato”. Dall’indagine risulta infatti che “nella maggior parte dei casi non c’era aggressività come motivazione per legare i pazienti. Gli psichiatri hanno detto che li hanno legati perché erano agitati, inconcludenti, dissociati e questo dà la misura dei limiti dei nostri strumenti”. La maggior parte delle contenzioni sono fatte in fase di trattamento sanitario obbligatorio. Compito della psichiatra deve essere quello di costruire relazioni empatiche e di scambio non unilaterale. “Nella pratica questo non avviene e si ricorre alla contenzione, ma non per l’aggressività del paziente ma perché il folle, come ci ha insegnato Freud, è un elemento inquietante, al di là del nostro buonismo, e la presenza di un paziente delirante, dissociato,  genera angoscia e tensione così profonde che l’inquietudine si traduce nella necessità di bloccare l’altro”. Questa la verità. In Italia le cose accennano a cambiare? “No di certo – dichiara Sangiorgio – la conferenza Stato-Regioni ha preso atto di quello che accade in Europa, ma non in Italia dove, eccetto questo studio epidemiologico non si sa cosa accada nei reparti psichiatrici. Ci sono Regioni che devono legiferare e non l’hanno fatto. I provvedimenti coercitivi sono affidati al buonsenso. I pazienti spesso sono violenti e pericolosi, ma gli psichiatri non sono da meno”.

Come cambiare. Fondamentale la formazione.  Prima di tutto bisogna mirare alla gestione dell’emotività e all’aggressività degli operatori stessi. “I terapeuti hanno a che fare con il mondo dell’inconscio. È necessario imparare a trattare il paziente psichiatrico, che venga accolto dal primo momento con parole, parole adeguate. Stiamo lavorando con la Regione per arrivare a un protocollo”. Paradossalmente il paziente ‘contenuto’ va superassistito: “I protocolli internazionali prevedono controlli assidui. L’istituzione che contiene il malato si immette in una gabbia da cui non può più uscire. Nel momento in cui si decide la contenzione, gli infermieri che oggi devono essere laureati e la struttura nel suo insieme, si assumono una responsabilità penale gravissima”. A volte il problema è aggravato dalla combinazione di contenzione e farmaci neurolettici, due contenzioni in una. Certo “tutti i servizi hanno funzione di cura, terapia, ma anche controllo, eppure gli strumenti da usare sono la relazione e l’empatia, la scelta dialogica quindi provare una strategia di mantenimento”. Il paziente si deve sentire accolto non compianto né giudicato. Ci sono tanti pregiudizi ancora da sfatare, primo fra tutti che il malato di mente sia necessariamente violento. La paura della nostra società verso il malato mentale è tutta proiettata nei comportamenti dei clinici, spesso mossi dall’intento più che di trovare la strada della guarigione, anche attraverso l’umanizzazione dei reparti e del lavoro, di sedare il paziente e togliersi dalla vista un’irrequietezza psicomotoria ingestibile. L’errore emozionale da parte dello psichiatra o degli operatori nella considerazione del paziente è forse altra cosa dall’errore medico tout court, ma è altrettanto grave.  Rischia di trasformare la degenza in patologia. Noi tanto pieni di ‘salute’ da scoppiarne, credendoci lontani dalla malattia psichica, ci vantiamo di una normalità apparente in assenza di deliri, allucinazioni o stranezze. Ci si dimentica che la condizione umana in quanto tale comporta sempre di per sé la malattia dell’esserci (Jaspers) che con le sue infinite varianti tutti colpisce, compresi superbi, indifferenti, ignavi.

Tutte le foto a corredo dell’articolo sono tratte dal sito dell’archivio del centro di documentazione di storia della psichiatria San Lazzaro, istituzione scientifica sorta nel 1991 presso l’ex Istituto Neuro-Psichiatrico “San Lazzaro” di Reggio Emilia.

Titolo: Matti (non) da legare
Autore: Sangiorgio P., Polselli G. M.
Editore: Alpes Italia
Dati: 2009, 168 pp., 13,00 €

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