Mezzo intellettuale, mezzo di sinistra

La pancia di Ronaldo che danza sullo schermo, le lattine di birra mezzo vuote e le domeniche che scivolano via con un brivido di onnipotenza (che se uno così fa quei pallonetti lì allora anch’io, birre a parte, posso tutto davvero). I martelli pneumatici, i barboni e la demolizione di Perdizes (che è sempre meglio un grattacielo di venticinque piani con palestra, piscina e 1000 reais al mese di condominio anziché una vecchia casa di inizio novecento). I mondiali, le olimpiadi a Rio de Janeiro e chi continua a buttare divani e lavatrici in mezzo al mare (che tanto la Baia de Gaunabara, dicono, la devono bonificare). Ci sono tutte le speranze e le contraddizioni del Brasile di oggi in Meio intelectual Meio de esquerda (São Paulo, Editora 34, 2010), raccolta di ottanta cronache letterarie pubblicate tra il 2004 e il 2009 su importanti riviste e giornali brasiliani dal giovane scrittore di São Paulo Antonio Prata.

Trentaquattro anni, tre corsi di laurea (filosofia, cinema e scienze sociali) mai conclusi, Prata è uno che ama prendere e prendersi in giro (non a caso la sua promettente carriera è iniziata nella famosa rivista Capricho – l’equivalente brasiliano del Cioè – in cui teneva una rubrica sui più comuni psicodrammi e miti adolescenziali). Negli ultimi dieci anni ha scritto per l’Estado de São Paulo, Globo e HBO (come sceneggiatore). Attualmente scrive per la Folha de São Paulo. A chi capisse un po’ di portoghese suggerisco di dare un’occhiata qui e qui. Per tutti gli altri segue invece la traduzione di uno dei suoi testi più famosi – Bar ruim è lindo, bicho! – un’autocritica delle nuove leve di intellettuali di sinistra, che anche in Europa sembra avere una ragione più che precisa (seguita a sua volta da un breve glossario).

I bar brutti sono belli, ragazzi!
[di Antonio Prata]

Io sono mezzo intellettuale, mezzo di sinistra. Per questo frequento bar mezzo brutti. Non so se lo sai, ma noi, mezzo intellettuali, mezzo di sinistra, ci giudichiamo l’avanguardia del proletariato. Da più di centocinquanta anni (ci deve essere qualcosa di sbagliato con un’avanguardia di più di centocinquanta anni, ma fà niente).

Nel bar brutto che frequento attualmente il proletariato risponde al nome di Betão, il cameriere, che saluto con una pacchetta sulle spalle, credendo di risolvere così cinquecento anni di storia.

A noi, mezzo intellettuali, mezzo di sinistra, piace diventare amici del cameriere, con cui parliamo di calcio fin quando non arrivano i nostri amici per parlare di letteratura.

– O Betão, portacene un’altra – dico io, con i gomiti appoggiati al tavolino di latta sbilenco. E mi sento parte di questa cosa bella che è il Brasile.

Perché noi, mezzo intellettuali, mezzo di sinistra, adoriamo far parte di questa cosa bella che è il Brasile. Per questo andiamo nei bar brutti, che fanno molto più Brasile che i bar belli, dove si serve petit gateau e non c’è pollo à passarinho o carne-de-sol con macaxeira, che sono piatti tradizionali della nostra cucina. Benché noi, mezzo intellettuali, mezzo di sinistra, quando invitiamo una ragazza a uscire per la prima volta, ci andiamo più di petit gateau che di pollo à passarinho. Perché è vero che ci piace il Brasile, ma nell’ora del quagliare una europeata aiuta sempre.

A noi, mezzo intellettuali, mezzo di sinistra, piace il Brasile, ma molto ben diagrammato. Non è un Brasile qualunque che ci piace. Così come non ci piace un qualunque bar brutto. Deve essere un bar brutto autentico, una bettola, con tavolini di latta e bicchieri americani. E se per caso c’hanno pure una porzione di carne-de-sol, allora una lacrima spunta giù dai nostri occhi, lì nell’angolino, mezzo nascosta.

Quando uno di noi, mezzo intellettuali, mezzo di sinistra, scopre un nuovo bar brutto che nessun altro mezzo intellettuale, mezzo di sinistra, frequenta, noi non ci conteniamo più: chiamiamo tutta la cerchia di mezzo intellettuali, mezzo di sinistra e decretiamo che quello è il nostro nuovo bar brutto.

Il problema è che, poco a poco, il bar brutto diventa cult e inizia ad essere frequentato da vari mezzo intellettuali, mezzo di sinistra e universitarie più o meno fighe. Fin quando la Vejinha non lo recensisce come punto di ritrovo di artisti, cineasti e universitari e, un bel giorno, arrivando nel bar brutto, scopriamo che è pieno di gente che non è né mezzo intellettuale, né mezzo di sinistra, ed è andata lì solo per vedere se ci sono davvero artisti, cineasti, universitarie più o meno fighe. E allora noi diciamo: a me il bar piaceva prima, quando ci veniva soltanto il mio gruppo di mezzo intellettuali, mezzo di sinistra, le universitarie più o meno fighe e qualche vecchio ubriaco che giocava a domino. Perché noi, mezzo intellettuali, mezzo di sinistra, adoriamo dire che frequentavamo il bar brutto prima che diventasse famoso, andavamo in quella spiaggia prima che si riempisse di gente, ascoltavamo quel gruppo prima che suonasse su MTV.

A noi, per esempio, piacciano quei poveri che andavano in spiaggia prima, poveri che sanno arrampicarsi sui cocchi e usano sandali di cuoio. Questo sì che era bello. Detestiamo invece i poveri che sono venuti dopo, con le Chevette e le ciabatte Rider. Questi poveri no. A noi piace il povero autentico, del Brasile autentico. E ci fa ribrezzo la Vejinha, la aborriamo davvero, più di ogni altra cosa.

I proprietari dei bar brutti che frequentiamo si dividono in due tipologie: quelli che ci capiscono e quelli che non ci capiscono. Quelli che capiscono, capiscono davvero come siamo. Tengono il bar autenticamente brutto, chiamano un cugino del cognato per suonare un samba il venerdì, ci infilano la crocchetta di baccalà nel menù e aumentano tutto del 50% (capiscono che noi, mezzo intellettuali e mezzo di sinistra, stiamo abbastanza bene e siamo disposti a pagare caro roba che invece sembra economica). I proprietari che non ci capiscono, di fronte all’invasione, sostituiscono i tavolini di latta con tavoli di finto marmo, piastrellano le pareti e mettono uno stereo con musica reggae. E lì si fregano, perché a noi sta roba ci fa schifo. A noi, come ho già detto qualche volta, ci piacciano le cose autentiche, le cose così Brasile, le cose così roots.

Non ti credere che sia facile essere mezzo intellettuale e mezzo di sinistra in questo paese. Ogni giorno è sempre più difficile incontrare bar brutti, di quelli che piacciono a noi. I poveri hanno tutti ciabatte Rider e la Vejinha è sempre all’erta, pronta a riempire i nostri bar brutti di gente giovane e bella e a diffondere il petit gateau per i quattro angoli del mondo. Per la disperazione dei mezzo intellettuali e mezzo di sinistra come me che, per questioni ideologiche, preferiscono il pollo à passarinho e la carne de sol con la macaxeira (che è lo stesso della manioca, ma è come si dice là nel Nordest, e noi, mezzo intellettuali, mezzo di sinistra, pensiamo che il Nordest è molto più autentico del Sudest e preferiamo questo termine qua, macaxeira, che è molto più Camara Cascudo, capito?)

O Betão, portami una cachaça va! Di Salinas che c’hai?

Glossario mezzo auto-referenziale.

Pollo à passarinho: pollo fritto condito generalmente con aglio e prezzemolo.
Carne-de-sol: carne salata ed essiccata al sole.
Macaxeira: manioca.
Bicchiere Americano: in portoghese brasiliano, “copo americano”. È un antico, povero e tipico bicchiere da bettola. Si usa per bere di tutto: birra, cachaça, caffè, caffellatte e altro ancora. Nell’immaginario popolare brasiliano ha un po’ il valore del nostro bicchiere d’osteria. Per esempio, io l’ho sempre associato a questo qui.
Vejinha: Veja San Paolo, meglio nota come Vejinha, è il supplemento settimanale dell’edizione di San Paolo della rivista mezzo sensazionalistica, mezzo di destra Veja. Un inquietante incrocio tra Chi e Panorama.
Chinelo Rider: marca di ciabatte e infradito radical-cafonal.
Nordest: Il mezzogiorno, il Meridione, il profondo Sud del Brasile (dato che sotto l’equatore gira tutto al contrario anche la geografia della povertà si è dovuta adeguare). Comprende gli stati di Alagoas, Bahia, Ceará, Maranhão, Paraíba, Piauí, Pernambuco, Rio Grande do Norte e Sergipe.
Sudest: Il Nord produttivo del Brasile (capovolgiamoci di nuovo). Include gli stati di Espirito Santo, Minas Gerais, São Paulo e Rio de Janeiro.
Camara Cascudo: Antropologo, storico e studioso del folklore e delle tradizioni popolari brasiliane, in particolare di quelle del Nordest. Una specie di Ernesto de Martino brasiliano, se proprio vogliamo fare un paragone.
Cachaça: acquavite di canna da zucchero. Quella che si usa per la caipirinha, per intenderci. E visto che ci siamo sfatiamo un altro mito: la caipirinha non si fa affatto con lo zucchero di canna. Si fa con lo zucchero bianco raffinato, quello di tutti i giorni, che si scioglie bene, non ti resta tra i denti e non opprime i sapori. Ecco, l’ho detto.
Salinas: marca di cachaça che prende il nome dalla città (della perdizione) in cui ha sede la distilleria.