Al lavoro! Che la morte ci trovi vivi e conservati al naturale

(Citazione d’avvio) Tragedia in due battute di Achille Campanile, Morto che parla
Personaggi: il morto, i parenti e gli amici del morto
La scena rappresenta una camera ardente. Il morto è steso sul letto, fra le candele e i fiori; intorno, i famigliari e gli amici singhiozzano, strillano, si disperano, si danno le pugna nel capo, si strappano i capelli, si torcono le braccia, camminano avanti e indietro imprecando e minacciando di fare qualche pazzia.
il morto: (tra sé, intravedendo la scena attraverso lo spiraglio delle palpebre non ben chiuse): “Quante esagerazioni! Ma allora che dovrei fare io?”. (Sipario)

Diamine! Si può parlare di morte, senza avere la morte nel cuore, ma sviluppando un sano coinvolgimento vitale. In fondo ci riguarda tutti l’evento che sancisce “la completa uguaglianza degli ineguali”. Peccato che il vero guaio di questi tempi è che non sappiamo di che morte morire, o meglio di che morte poter morire. In pace e in piena libertà. La medicina ci tira per la giacca o le braghe tenendoci in vita, rendendo spesso impossibile una semplice morte naturale. A proposito, di naturale sembra non sia rimasto che il tonno in scatola. Proprio mentre (è notizia di questi giorni), si sono riaccese le polemiche sul bio-testamento e il ministro Sacconi ha bloccato con una circolare i registri di 70 comuni italiani che hanno raccolto la volontà dei cittadini in materia, in un convegno organizzato dall’Istituto Gestalt Firenze (diretto da Giovanni Paolo Quattrini e Anna Rita Ravenna) intitolato “Co-costruire le relazioni”, si è discusso anche delle problematiche di fine vita. Co-costruire non è modalità interpersonale propria dell’epoca dei co.co.co, ma è specifica attitudine di una relazione costruita da ambo le parti. Così dovrebbe essere la relazione tra terapeuta e paziente, ad ogni livello, in ogni condizione. In tal senso, una sessione del convegno è stata dedicata alle vite al tramonto (avviata dalla lezione magistrale del professor Bruno Callieri su tema “Dialoghi all’imbrunire: tra involuzione e creatività”). Tre interventi tra i tanti, tutti di alto livello, per fornire qualche spunto. Michele Galgani, psicoterapeuta toscano della Gestalt Associazione Faber di Trani, lavora  in un hospice, ovvero una di quelle strutture definite anche alberghi a cinque stelle che accolgono i malati terminali.

Galgani ha dato la sua testimonianza viva e pulsante. Il concetto fondamentale che ha evidenziato è che “essere dichiarato non più guaribile, non significa non essere più curabile. Tutti noi siamo in questo istante dei terminali. Chi è definito terminale deve essere accudito”. O meglio accompagnato, secondo l’etimo per cui accompagna chi condivide il pane. “E il condividere il pane torna nel ruolo dello psicologo”. Che senso può avere allora fare lo psicologo in un hospice? “Il senso che ogni volta si rivela. Cercare di renderci e rendere il luogo familiare, come luogo delle relazioni e delle persone alle quali potersi affidarsi e con cui potersi esprimere per come si è”. La cura palliativa, che è quindi come il pallium, un mantello, copre e dà valore alla persona malata, permettendole di costruire un senso nel suo percorso di fine vita, “perché quando una persona è dichiarata inguaribile subisce un declassamento da sé stessa”. Dai gusti in fatto di cibo a un attacco d’ansia, non viene interpellata. Come se fosse già cosa inerte che non merita ascolto, comprensione, interesse. Qualche volte capitano equivoci che riportano anche i momenti più drammatici a una dimensione ludica. Come quella volta che Michele fu scambiato da Benito, suo paziente dell’hospice non abituato allo psicologo, come tanti, per un altro personaggio: “Molto bravo quel prete”, sentenziò. Lo psicologo dell’hospice a suo modo è colui che si prende cura dell’anima dell’altro, senza essere un chierico.

C’è poi il lutto che si affronta nell’esperienza analitica con il gioco della sabbia. Ne ha parlato la psicoanalista junghiana Livia Crozzoli Aite che ha costituito il gruppo eventi, associazione di volontariato e auto aiuto per le persone in lutto. Quando arriva il tempo degli addii, non sempre si riesce a iniziare un percorso rielaborativo, si vive in una dimensione di grande solitudine e di angoscia, si destruttura la temporalità, manca qualsiasi pensiero progettuale, un senso del futuro, un’adesione al presente. “

La coscienza non trova nessun appiglio cui aggrapparsi. La prima risposta a un lutto è intraprendere il cammino e l’impegno a condividere la propria sofferenza, esprimere i vissuti dolorosi, oggettivarli”. Il lutto può avviare un percorso che è insieme accettazione della perdita e ricerca di sé stessi. Questo accade se si “addomestica la perdita” e il dolore diviene una risorsa purché non ci si lasci spaventare né sedurre. L’analista utilizza da 40 anni la tecnica del gioco della sabbiera, valido strumento quando verbalizzare non basta, perché c’è di mezzo la corporeità. “è un atto psichico con valenze comunicative e anche trasformative che serve a far emergere le verità simboliche e curative della psiche attraverso il gioco. È il corpo psiche che si manifesta nel gioco dove si pongono oggetti scelti dal paziente in chiave simbolica. Il paziente vuole condividere il dolore. Il lutto è un’occasione di vita”. Una grande emersione alla vita.

“Molti muoiono troppo tardi. Alcuni troppo presto. Ancora suona strano il precetto: muori al tempo opportuno”. La frase di Friederich Nietzsche in Così parlò Zaratustra è sapientemente citata dal professor Sandro Spinsanti, esperto di bioetica e presidente dell’Istituto Giano di Roma,  ad apertura del suo intervento sulle decisioni di fine vita e le relazioni d’aiuto. Nietzsche profeticamente aveva messo a fuoco un tema che oggi ci coinvolge più che mai: l’ars moriendi. “Non solo perché – ha sottolineato lo stesso Spinsanti – da una settimana si è riacutizzato questo tema culturale esistenziale politico comunicativo sull’eredità biologica, che ritorna in forma: sei favorevole o contrario all’eutanasia? Sei per la sacralità della vita o contro? Ma perché è indice di un malessere che c’è. Noi non siamo contenti di come si realizza la fine della vita”. Quello che disturba non è solo il tempo del morire, spesso frutto di una decisione unilaterale del medico, ma anche il luogo, il modo. E così, registra Spinsanti “cent’anni e più dopo Nietzsche siamo in uno scenario in parte uguale, in parte profondamente diverso”. Così come vivere male, anche morire male, non è difficile, non richiede poi molte accortezze, non ci vuole neanche la pratica: basta far decidere gli altri, i medici, o mettersi nelle mani dei familiari. Un medico palliativista citato da Spinsanti ne è convinto. Chi deciderà per noi quando non saremo in grado di decidere? Dai tempi di Nietzsche, più di qualcosa è cambiato: la medicina è in grado di prolungare la vita umana, ma bisogna vedere che tipo di vita prolunghi; l’individuo è in grado di manifestare la sua differenza di gusti ad oltranza e vorrebbe decidere anche sulla sua morte. La medicina, che è la medicina di stampo ippocrateo, non al passo coi tempi, decide per noi e “determina anche la modalità e il tempo che ci viene assegnato di sopravvivenza che costituisce non la nostra speranza, ma il nostro incubo. Fino a ieri il medico poteva fare buona medicina in scienza e coscienza senza informare il paziente. Ma ora anche nelle decisione di fine vita abbiamo bisogno di due visioni complementari. Quello che la medicina può fare e quello che le persone decidono, per arrivare a una soluzione che non sia imposta ma condivisa”. Scherza Spinsanti, ma fino a un certo punto, quando dice che è giunta l’ora di cambiare teste senza mozzarle: la testa dei medici, ma anche dei familiari. In mezzo, stanno gli psicologi, chiamati a una gran bella sfida. Vedersela con le emozioni, anche di chi è a fine vita, ora che al paziente va detto tutto e pure di più. “E le emozioni son cose pesanti, umide. Le decisioni, anche quelle finali, insomma, vanno co-costruite”.  Ancora il co-costruire. Perché si possa diventare responsabili dalla nascita alla morte. Dall’ars vivendi all’ars moriendi. Ovvero ci si possa organizzare secondo la propria specificità, ognuno in casa propria perché la morte ci trovi vivi, come insegnò l’umorista Marcello Marchesi.