900. Un secolo da ricordare

Quando tre anni fa Milano è diventata la mia città, malgrado ogni sforzo fatto in senso contrario, il primo posto che ho geograficamente individuato è stato, naturalmente, il Duomo e l’adiacente piazza. Un elemento evidentemente poco originale che tuttavia cercavo di raggiungere appena potevo, il solito posto in cui davo i miei appuntamenti, la meta più cara, il punto dal quale partivo per passeggiate volte all’esplorazione delle vie del centro.

Mi piace pensare che proprio quella piazza sia stata nel suo piccolo il simbolo del mio lentissimo e graduale apprezzamento di questi luoghi. Messa da parte la magnificenza del Duomo, mi abbandonavo alle quasi impercettibili e in quanto tali sorpredenti scoperte di tutti i giorni: l’eleganza dei palazzi, il fascino delle gallerie, il sapore antico che percepivo nell’attraversare la piazza da un capo all’altro, scansando turisti e piccioni, nell’alzare gli occhi verso un cielo quasi sempre poco sincero, come dentro una cartolina in bianco e nero.

Curioso scoprire che proprio in quella piazza dietro a uno schermo gigante (la prima «media-facciata italiana» ho poi appurato, sulla cui ragione d’essere non mi ero mai interrogata), nasceva un museo, dentro il bel Palazzo dell’Arengario, progettato negli anni Trenta del secolo scorso e costruito su due edifici identici, elevati dal movimento elegante di grandi arcate, a sua volta enfatizzato da spirali verticali visibili dalle vetrate. Una notevole opera architettonica, a posteriori difficile da non identificare, ma che con estremo disappunto mi sono accorta di non aver mai notato prima.

E proprio in questo palazzo, un tempo abbandonato e poi adibito a uffici cittadini è stato concepito il Museo del Novecento, raccolta ed esposizione di quattrocento opere quasi interamente parte del patrimonio artistico italiano del secolo scorso, selezionate tra le circa quattromila dalle raccolte civiche d’arte milanese. Un grande progetto di trasformazione fisica degi spazi, ma anche una proposta culturale idealmente e simbolicamente forte che in un plumbeo, nebbiosissimo pomeriggio di gennaio decido di esplorare. Mi accodo infreddolita a una lunga fila di persone che raramente ho visto in Italia di fronte a un museo. «Sarà perché è gratis», penso, e intanto mi accorgo che la folla si esaurisce in fretta, tanto è rapido il via vai, e in brevissimo sono di fronte all’ingresso. Ogni possibile scetticismo viene troncato sul nascere con la prima imponente tela di Giuseppe Pellizza da Volpedo, il Quarto Stato, quasi una orgogliosa dichiarazione d’intenti. E di seguito un impegnativo e inatteso percorso in cui si alternano, secondo un ordine cronologico, alcune tra le pitture e sculture più significative del Novecento italiano. C’è il futurismo, ci sono gli Stati d’Animo di Umberto Boccioni c’è il dinamismo della Bambina X balcone di Giacomo Balla, c’è Gino Severini, c’è l’impronta più grafica di Fortunato Depero. C’è la metafisica di Giorgio De Chirico e di Carlo Carrà passando attraverso le Nature morte di Giorgio Morandi e la rivisitazione del classico del Bel Cadavere di Achille Funi.

C’è la scultura monumentale di Arturo Martini e di Mario Sironi. C’è l’avanguardia milanese di Renato Birolli e di Aligi Sassu insieme con L’uomo che dorme di Renato Guttuso. C’è la scultura di Fausto Melotti, ci sono gli Astrattismi di Manlio Rho. Ci sono l’espressionismo di Emilio Vedova, l’informale di Giuseppe Capogrossi, le grandi tele di atomi linguistici di Gastone Novelli, la splendida Rosa Nera di Jannis Kounellis fino al Lucio Fontana dei Metalli e del Concetto Spaziale al Burri della Muffa e della Sabbia. E poi gli Achromes di Piero Manzoni, insieme con l’ottantesimo barattolo della sua Merda d’artista. E poi via, via verso opere più contemporanee, la pittura analitica, Mimmo Rotella, una delle luminose Successioni di Fibonacci di Mario Merz, gli esempi di arte interattiva delle Superfici magnetiche di Davide Boriani, gli ambienti realizzati da Gianni Colombo e le opere del Gruppo T che insieme con Michelangelo Pistoletto e Gilberto Zorio chiudono il passaggio all’ala più nascosta, meno clamorosa ma decisamente più ludica dell’intero Museo.

Tra una sala e l’altra, nelle vie di passaggio man mano che si sale o si scende è impossibile non distogliere lo sguardo dall’esposizione, per indugiare sulla vista che le grandi vetrate regalano ai visitatori. Si vedono le guglie candide del Duomo da una prospettiva insolita, le cupole in vetro delle gallerie e i palazzi; i passanti che attraversano la piazza sembrano formiche frettolose. È  Milano che si consuma sotto i miei occhi. E mentre metabolizzo le immagini, cerco di fare ordine tra i nomi, penso che per apprezzare tutta la collezione dovrò tornare, magari anche un paio di volte. Nell’uscire mi mescolo subito con la gente, si è fatto buio e non c’è più nessuno in coda, ma le luci dei palazzi circostanti riscaldano l’aria. Una sensazione di appagato, orgoglioso stordimento mi accompagna lungo la via. La riconosco, è quella che ti sanno dare le cose belle e piene di significato quando hai la fortuna, rarissima nel nostro ora, nel nostro qui, di vedertele passare sotto gli occhi.