Naufragi mediatici e cronache di altri inabissamenti: la storia della Querina

A chi non è mai capitato di far “naufragio” mediatico? Spesso le cronache di tv e giornali offuscano la mente, azzerano il senso delle proporzioni perché amplificano cose futili, microscopiche; marginalizzano e rimpiccioliscono fino anche a farle scomparire quelle rilevanti. Ultimi “sbarcati” in questo spazio-tempo terrestre siamo portati a coltivare pensieri distorti per eccesso di condizionamenti ambientali. Per esempio il dramma di mare più recente, quello al Giglio, ci può indurre a credere che naufraghino occasionalmente solo città galleggianti per colpa di un ‘inchino’ strumentale e affaristico non riuscito tra i tanti andati a buon fine e sempre misconosciuti;  che una volta naufragati si sbarchi in una qualche isola tra telecamere fisse, quindi si torni a casa con un carico di celebrità impropria e la morte tenuta a debita distanza. Basterebbe rivolgersi agli ignoti marinai improvvisati che da altre sponde hanno tentato e tentano per disperazione e con fortune alterne la traversata del Mediterraneo per sapere che non è così. Il naufragio, dopo quelli di Ulisse, Enea, Giona,  è esperienza continua e drammatica della storia umana e i sopravvissuti stanno lì a raccontarlo. Solo nel fondo del Mediterraneo “dormono” 2500 navi (fonte l’Espresso del 2 febbraio).

In cerca di pezze d’appoggio storiche di altre cronache mi sono imbattuta in un’eccezionale testimonianza: Il naufragio della Querina – Veneziani nel circolo polare artico, un testo del 1400 riscoperto e riscritto in un italiano moderno che irradia tante riflessioni su viaggio, audacia e limiti umani, vita, morte, destino. È stato pubblicato nel 2007 dalla casa editrice Nutrimenti che oltre alla saggistica e alla narrativa ha una bella collana dedicata al mare e alla vela, ‘Transiti blu’,  in cui ci sono perle apprezzabili non solo da esperti e lupi di mare. In realtà il testo in questione si sdoppia in due racconti fatti da tre di undici sopravvissuti. Un resoconto è scritto di proprio pugno dal capitano della nave, armatore e mercante, il nobile veneziano Pietro Querini; l’altro fu dettato da due ufficiali di bordo, Nicolò di Michele e Cristofalo Fioravante al cronista e umanista fiorentino Antonio de Cardini.  La Querina era una nave mercantile veneziana fatta costruire a Creta da Pietro e che da quell’isola partì nel 1431 con un equipaggio di 68 uomini di tutte le nazionalità. Era diretta nelle Fiandre per commerciare legno pregiato e vino che trasportava a bordo, rotta  all’epoca abituale. Nelle Fiandre però non arrivò mai. Accadde che la nave trovandosi nel vortice di una tempesta venisse spinta a nord da venti contrari; la furia degli elementi spezzò il timone, costrinse l’imbarcazione ad andare alla deriva finché l’azione delle onde e del vento strappò le vele, quindi la frantumò. L’equipaggio fu costretto a buttare in mare acqua, vestiti, cibi, ad abbandonare ciò che restava della barca e dividersi tra due scialuppe, una più grande e resistente; l’altra più piccola.  La seconda  scomparve, inghiottita dalle acque. A poco a poco gli uomini dell’altra imbarcazione iniziarono a morire di stenti, chi per aver bevuto acqua di mare e chi per fame e assideramento.

Solo alcuni tra cui il capitano e i due ufficiali approdarono dopo nove mesi dalla partenza in un’isola dell’arcipelago delle Lofoten, (coste settentrionali della Norvegia), già nel circolo polare artico. Ridotti a undici, sarebbero morti anch’essi nell’isola disabitata  se non fosse stato un sogno a salvarli. Sì questa storia incredibile contiene di tutto: la voce assordante della paura, la sofferenza, la disperazione e in più anche la testimonianza della potente azione salvifica dell’inconscio. L’isola era usata in primavera per far pascolare le bestie da parte di abitanti di altre isole. Il  figlio di un pescatore sognò che gli animali erano caduti da una rupe proprio dalla parte dove si trovavano i sopravvissuti e pregò il padre, sia pure fuori stagione, di recarsi sul posto per una verifica. Fu allora che scoprirono la presenza di uomini venuti da altre sponde. A differenza però di alcuni racconti di mare e d’avventura questa storia è vera. Accolti dalla popolazione locale scoprirono i loro usi, compreso quello di essiccare il merluzzo: leggenda vuole che Pietro Querini abbia portato in Italia per prima lo stoccafisso fino a imporsi nella gastronomia veneta. Nei diari annotano i diversi modi di vivere: la semplicità dei costumi, le donne che non hanno il senso del pudore e vanno nude ai bagni termali, la mancanza di moneta e l’uso del baratto.

La curatrice in francese, Claire Judde de Lariviere (specialista della storia di Venezia), ha attinto al manoscritto del capitano Querini conservato nella biblioteca Vaticana e al testo dei due ufficiali di bordo conservato nella biblioteca Marciana di Venezia revisionandoli e ammodernandoli nella lingua. Il curatore italiano, Paolo Nelli, è partito da questo testo francese per la traduzione italiana. Interessante è notare le differenze tra i due testi: più intimista, articolato e dettagliato quello del capitano di cui si intuisce il diverso rango sociale e livello culturale; più sintetico, semplice e incentrato soprattutto sulle questioni materiali, il corpo e i suoi bisogni, la fame, la sete quello degli ufficiali, forse in parte rimaneggiato dall’umanista ‘scrivano’. Emerge in entrambi la sottolineatura del ruolo del capitano come guida anche morale di uomini in preda al caos e alla disperazione, spesso abbandonati per la fame agli istinti più bassi o a tal punto ridotti a condizione bestiale da disinteressarsi addirittura di dormire tra cadaveri accatastati. “E se non fosse stato per l’intervento del nostro prezioso capitano, dall’incorruttibile umanità, dall’animo paziente, che con accomodanti parole fece in modo di mitigare gli animi, i compagni sarebbero morti non per fame, ma uccidendosi tra loro”, si legge nella versione degli ufficiali che ha certo il sapore dell’elogio. E nel testo di Querini: “Quale e quanta fosse la nostra disperazione lascio immaginare a chi ne sa di mare. Mi sentivo abbandonato dalla vita , ma non cessavo comunque di esercitare le mie funzioni di capitano con parole e gesti che volevano essere di conforto alle paure dei marinai per dare loro forza”.  Il capitano è il garante dell’ordine, del rispetto delle regole e della civiltà quando tutto sembra perso, l’unico elemento di stabilità e coesione, pronto  anche a sacrificarsi per i propri uomini, e ci tiene a enfatizzare nel racconto la sua autorità e la funzione svolta. Assai più d’interesse quando il suo racconto diventa “specchio dei sentimenti di un patrizio veneziano dei primi del Quattrocento” (postfazione). E allora la sua diventa la parola “di un naufrago, di un vissuto, di un miracolato” in un ordine mondano che fa sempre capo a un’autorità soprannaturale che tutto regola e a cui vanno le rinnovate preghiere a pericolo scampato: “Morire si deve morire, nessuno lo dubita, ma ci sono modi di morire più tragici di altri, e quale più crudele che annegare in mare?”. La voce di questi tre sopravvissuti, al di là dei manierismi, oltrepassa i secoli, è viva, come a parlare anche a nome dell’umanità naufragata nelle circostanze più diverse e mai più tornata, a ripristinare le dovute proporzioni tra noi e mare, tra noi e la natura che mai sarà contenuta in una scatola a forma di tv.

Titolo: Il naufragio della Querina. Veneziani nel circolo polare artico
Autori: Pietro Querini, Nicolò De Michiele, Cristofalo Fioravante
Curatore: PaoloNelli
Editore: Nutrimenti
Dati: 2007, 101 pp.,  14.00 €

Acquistalo su Webster.it