Nel cimitero diffuso alla ricerca della morte ricordando un grande “anarchico” epistemologo

“Così come la traiettoria di un proiettile termina al bersaglio, la vita termina nella morte che è quindi il bersaglio, lo scopo di tutta la vita”.  Le parole di Jung sono farmaco che nessuna industria farmaceutica potrà mai produrre: ragion per cui dovrebbero procurare all’istante una guarigione o almeno sollievo da ogni forma di disagio o instabilità esistenziale perché sono permanente emanazione di senso; tracce di carne viva poeticamente pensante ciò che occorre pensare tralasciando il superfluo; sprone al coraggio d’agire nel mondo; invito al risveglio alla consapevolezza, valido a ogni stagione, oltre la primavera incalzante. Coltiviamoci dunque respirando il flusso della vera ontologia e riflettendo, dal corpo attraverso l’immaginazione attiva che non è fantasticheria, mentre assistiamo al gioco del tempo che consolida i suoi talenti.  Qualche compagno assai più avanti nel viaggio abbandona questa riva: la morte l’avvolge traghettandolo verso altre sponde; svolta di cui non si può registrare nulla eccetto il mistero che comunque riveste tutto, sia il corpo  vivo che inerte. Così l’analista junghiana Simonetta Putti con Marcello Pignatelli ha aperto la presentazione del libro Corpo Riflessione Immagine (Alpes edizioni) presso la libreria Assaggi di Roma ricordando Bruno Callieri, anarchico epistemologo e psicopatologo,  cercatore di senso e significato oltre i parametri riduzionistici della psichiatria e della codificata divisione dei saperi, scomparso appena da un mese. É stata una rievocazione sintetica, dritta al bersaglio, il centro dell’identità di un’anima eccezionale: “Con lui ho avuto modo di lavorare negli ultimi 15 anni e ciò che ci lascia non è un ricordo, ma una modalità operativa. Nell’ultimo scritto contenuto nel libro, Callieri propose il titolo “Ambigua identità dello psicopatologo e dell’analista junghiano” perché chi oggi si occupa della cura di corpo e psiche, sa che la guarigione passa per l’integrazione di vita e morte, non può chiudersi nel sapere specialistico ma deve essere, da nuovo umanista, attento all’etnologia, all’antropologia,alla psicopatologia, ma anche alle indicazioni che vengono da letteratura, filosofia, teologia, costume, sociologia, virtualità informatica e altro ancora. Così faceva Callieri, così praticava la via e trovava sempre nuovi “compagni nel transito”.

Gli sarebbe piaciuta moltissimo la serata di presentazione del libro che l’ha visto tra gli autori perché si è parlato dei temi propri del suo essere nel mondo: limite, vita, morte. Della morte costitutiva dell’esserci, di heideggeriana memoria, di cui Callieri aveva parlato al convegno del Centro studi di psicoanalisi e letteratura del 2010 e scritto sul numero 10 del Giornale storico del Centro. La morte per un fenomenologo quale era rappresenta di certo il momento più critico, “lo scacco più radicale” dell’intersoggettività perché “rottura netta, definitiva, irrevocabile” del co-esserci (così scriveva nel numero di aprile 2010 del Giornale). Ma Callieri segnalava anche che la rimozione della morte è espressione di una cultura nevrotica: “se la cultura attuale tende a occultare la morte e a rimuovere  ogni discorso a essa relativo, ciò spinge a pensare a un profondo disagio della civiltà”. E comunque, esplorando le nevrosi come le grandi tematiche psicopatologiche, fobiche e ossessive, melanconiche e deliranti, pulsionali e immaginative, psicopatiche e sadiche, lo psichiatra ‘eretico’ invitava sempre a centrare – junghianamente – il bersaglio: “la questione della morte non è più eludibile né dallo psicologo del profondo né dall’antropoanalisi, né dal pastore d’anime né dalla teologia, in perenne invito all’indagine. Perentorio è il richiamo secolare alla grande Incognita, iscritta nella carne stessa dell’uomo radice costitutiva dell’ambiguità del suo esserci”. In piena continuità con la questione di centrare il vero bersaglio della vita, la morte, isoliamo un paio di spunti offerti nel corso della presentazione di Corpo Riflessione Immagine, tra i tanti che offre il libro (di cui abbiamo già scritto qui), caleidoscopio di voci e professionalità sul tema messo insieme da Simonetta Putti e Ferdinando Testa con l’intento ha spiegato Putti “di andare oltre la superficialità, questa modalità di vivere che è fatta di dispercezioni,ovvero percezioni distorte che ci impediscono di scavare oltre la buccia e comprendere. Il libro è un invito a riflettere per comprendere e se comprendiamo possiamo cavare spazio per un certo benessere”.

La dilagante “extraterritorialità della morte” (Callieri), “morte che non parla più, morte inarticolata, guardata a vista” (J.Baudrillard) è colta anche da Marta Paniccia (psicoterapeuta sistemica-relazionale e membro del servizio clinico per i lutti dell’Accademia della famiglia) nel capitolo del libro dedicato al cimitero diffuso. Nota Paniccia che il principale campo di socializzazione con la morte è la ‘tele-visione’: videogiochi, film, tv, tg, ma “la tele morte ha in questa società il suo contro altare nelle morti sulla strada”, dove sembra si abbia un contatto diretto con la morte. Allora lo spazio urbano diventa un cimitero diffuso: sempre più spesso vediamo sorgere nelle strade cenotafi privati, altarini con foto, biglietti e fiori in ricordo di chi è morto in un incidente quasi a volere restituire la corporeità di un proprio caro violentemente annientata. È un rituale in espansione che esprime un disagio crescente, il bisogno di opporsi “all’occultamento del lutto nella cultura occidentale, alla sua proscrizione e soppressione”. Occultamento a cui far risalire le psicopatologie del lutto: lutti bloccati, ritardati, o distorti.  Scrive Paniccia: “La morte chiusa nei cimiteri e negli ospedali irrompe col suo potere disgregante sulla strada, portando in superficie un problema sommerso nella nostra società dell’immagine, mettendo anche gli estranei in contatto (forse solo visivo) con l’esigenza di trovare un posto alla morte”.

L’indicazione di Simonetta Putti è di “riportare la morte nella vita”. Perché “proprio in quanto limite dato, può conferire senso all’esistenza” (Si legga il bel saggio di S. Putti, Il limite come attrattore di senso in Giornale storico numero 10, 2010), e il limite non è impedimento ma possibilità di valorizzare il tempo a disposizione sapendo che la morte “non è qualcosa che ci attende alla fine della vita, ma ciò che accompagna sempre la vita stessa, ciò a cui siamo sempre contemporanei”.  La più profonda e radicale paura umana, la paura della morte “strutturale al potere” più della paura della sessualità, può essere affrontata in tanti modi, compreso il non affrontarla e farla vivere come “la grande rimossa del nostro tempo”. L’accettazione cosciente della finitezza è invece per Putti la risposta che evidenzia il vero talento creativo umano. “Creatività del quotidiano” di un individuo  liberato che approda a “un vivere adeguatamente sereno”. Centrare il bersaglio, allora, è anche terminare con l’interrogativo proposto da Simonetta Putti: “Immaginando un mondo fatto di uomini che non abbiano paura della morte e che possano serenamente accettarla, o anche liberamente desiderarla e cercarla… quali conseguenze si avrebbero sul piano della coscienza collettiva e sul piano religioso?”.