Non c’è nulla che la guerra non possa sgretolare in un battito di ciglia

Anthony Shadid non ha visto pubblicata la sua opera. È deceduto il 16 febbraio 2012, in Siria, durante il suo ennesimo reportage per il New York Times. Non sotto il fuoco di un mortaio, non a causa della guerra che si accingeva a descrivere nuovamente: per un’allergia, una semplice allergia ai cavalli con i quali stava attraversando il confine tra Siria e Turchia. La tragica banalità della morte di un uomo sfuggito a sequestri, ad attentati, sempre in prima linea nel pericoloso caos mediorientale, cambia radicalmente l’approccio al libro, l’ineluttabilità del suo destino pervade la lettura di una luce malinconica, non è più mera cronaca giornalistica ma, quasi, un romanzo sulla ricostruzione.

È il 2006 quando Shadid, allora giornalista per il Washington Post e già vincitore di due premi Pulitzer per il giornalismo, decide di svestire temporaneamente i panni di inviato speciale e di trasferirsi in Libano, a Marjayoun, sulle orme dei suoi avi, e di ristrutturare una vecchia casa, la Bayt,  semidistrutta dai bombardamenti; ed è qui che inizia il racconto che alterna la ricostruzione di una complessa genealogia familiare, e le peripezie per dar nuova vita alla residenza del suo bisnonno: un tentativo di ricomporre le fila di una famiglia e delle sue tradizioni, e di ritrovare se stesso, la propria origine e identità.

È infatti la questione dell’appartenenza ad essere cruciale in un paese sempre al centro di dispute e spartizioni, rifugio per dissidenti, culla per estremismi, un paese dominato perennemente tanto da un’incertezza identitaria –  arabi o prima di tutto libanesi? -, quanto da un’incertezza geografica, nella contesa tra Oriente e Occidente; ed è a fronte di questa indeterminatezza che assume un’importanza rivelatrice e sacra la Bayt, perché la casa, vale a dire la struttura fisica o l’idea di famiglia, è, in sostanza, l’identità che non sbiadisce.

Anthony Shadid at the Ras Lanouf frontline, Libya, March 2011 Photo: FOHLEN CORENTIN/SIPA/Rex Features
Anthony Shadid at the Ras Lanouf frontline, Libya, March 2011 Photo: FOHLEN CORENTIN/SIPA/Rex Features

Tacciato come folle, o addirittura spia al soldo degli americani, osteggiato e mal visto in una cittadina in cui ogni discussione inizia immancabilmente con una dissertazione  sulle discendenze familiari, per Shadid la sua impresa è solo lo spunto per riappropriarsi della Storia, quella personale e quella di una terra, attraverso i materiali – dove una mattonella, la “cemento”, assurge a simbolo di una cultura millenaria perduta – e attraverso gli uomini impegnati nell’opera di ristrutturazione, personaggi singolari e picareschi, che portano con sé e il proprio lavoro, le tradizioni, l’orgoglio e i difetti di un intero popolo.

Alla fine, però, ad emergere è l’affresco di un paese sconfitto e in ginocchio; all’amore per una terra, che trasuda dalle sue parole accorate, dalle poetiche descrizioni dei paesaggi, delle valli di ulivi – paradossalmente simbolo di pace in una terra in cui tale parola ha perso ogni significato – fa da sottofondo l’orrore delle battaglie, quell’orrore che è impossibile replicare: le parole non possono ricreare in alcun modo l’odore della guerra. Ma oltre alla distruzioni materiali, la guerra causa anche il disfacimento di una cultura fondata sulle consuetudini, sospende  la quotidianità, interrompe per un tempo indefinito le abitudini che hanno fatto da collante per quella miriade di etnie storicamente tenute insieme dall’impero ottomano. Ed è questa disgregazione di valori e riti che fa piombare chiunque nella paura del futuro, un futuro che oscilla tra la certezza della guerra e la  fuga dalla polvere delle macerie, verso un occidente che da generazioni accoglie i profughi, che tende una mano mentre con l’altra finanzia i conflitti.

Per tutti quelli che come Shadid hanno intrapreso la strada della ricostruzione a Marjayoun, la delusione è dietro l’angolo, la delusione per un paese che sta scomparendo, in cui solo la terra e la natura lasciano un segno positivo: gli uomini, la storia, l’odio, lasciano invece un segno profondo come una ferita.

Così, terminata la ristrutturazione, Shadid riprende in mano la sua vita, in Egitto e in Libia nel 2011 a raccontare la primavera araba, fino a quando decide di far ritorno a Marjayoun, per chiudere un cerchio, per vedere sua figlia solcare la porta della Bayt, come i suoi antenati. Un cerchio per Shadid chiuso definitivamente.

410nhli9ahL._SL500_AA300_Titolo: La casa di pietra
Autore: Anthony Shadid
Editore: ADD Editore
Dati: 2012, 445 pp., 18,00 €

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